di Giovanni Vetritto

Esce il n. 28 di Stati Uniti d’Europa, e per una volta il supplemento federalista di Critica liberale accompagna le sue abituali rivendicazioni federali con un’importante smentita delle fantasie secessioniste dei taumaturghi antieuro e del ritorno alla moneta nazionale e alle svalutazioni competitive, con una ficcante intervista a Marcello Messori, economista brillante e di certo non sospettabile di simpatie neoclassiche. Un’occhiata a questa sua cruciale risposta potrà invogliare a leggere tutta la sua riflessione.

G.V.: È come se persino un pezzo della grande stampa stesse un po’ ubriacando la signora Maria con l’idea del decimale in più di deficit, il decimale in meno, un po’ più o meno di spesa pubblica. Se dovessimo tratteggiare alla maniera degli impressionisti francesi che cosa succede alla signora Maria la mattina dopo un’eventuale uscita dell’Italia dall’euro, io vedo un quadro drammatico, fra iperinflazione, ulteriore depauperamento delle migliori intelligenze […], rimborso dei debiti con la Bce.

M.M.: La questione posta sul tavolo è di grandissima rilevanza e la cosa che secondo me va sottolineata è che è la fascia più debole della popolazione che avrebbe le conseguenze peggiori da un disordine finanziario. Questo lo si vede immediatamente quando aumenta il cosiddetto spread, un aumento dei tassi di interesse: chi è che viene svantaggiato fortemente? Sono le famiglie che, anche se non ne sono pienamente consapevoli, detengono molta parte del debito pubblico italiano. Perché è vero che ormai non siamo più nella situazione degli anni 70 e 80 in cui le famiglie compravano direttamente i Bot del debito pubblico, però adesso comprano quote di fondi di investimento e se andiamo a vedere la composizione dei nostri fondi di investimento, hanno un peso rilevantissimo i fondi obbligazionari e dentro i fondi obbligazionari c’è una quota rilevantissima di titoli del debito pubblico nazionale.

Quindi è vero, il portafoglio è un po’ più diversificato rispetto al passato, ma è un’illusione ottica che le nostre famiglie non detengano i titoli del debito pubblico. Oltretutto, anche se in misura meno forte rispetto agli altri Paesi, le nostre famiglie hanno posizioni debitorie perché hanno contratto il mutuo per acquistare un appartamento, per alcuni consumi di medio-lungo periodo. Allora, se aumenta lo spread cosa succede? Questo vuol dire in termini economici che diminuisce il prezzo dei titoli del debito pubblico e aumenta il tasso dell’interesse per chi deve contrarre il debito o per chi ha contratto il debito e ha una qualche forma di tasso di interesse variabile. Certamente una situazione di questo genere apre opportunità di investimento per chi non ha paura del rischio, per chi opera sui mercati finanziari, per chi è in grado di muovere molto rapidamente il proprio patrimonio (e se ha un grande patrimonio può differenziare e diversificare). Chi resta scottato sono i piccoli risparmiatori.

Se questa è la situazione su un movimento di variazione dei tassi di interesse (dopo un periodo così espansivo di politica monetaria è quasi naturale che ciò avvenga) e già ci sono conseguenze così rilevanti, pensiamo quale sarebbero le conseguenze in una situazione in cui c’è un’uscita dalla moneta unica e quindi la nuova moneta nazionale subirebbe una drammatica e drastica svalutazione rispetto all’euro. Quando c’è un processo di questo genere, come insegnano gli anni 70, si sviluppa un fortissimo tasso di inflazione. Ritorneremmo a una situazione di circolo vizioso tra svalutazione e inflazione, i percettori di redditi fissi avrebbero una drastica riduzione del loro potere di acquisto, i piccoli risparmiatori che non sarebbero stati in grado di fare scommesse su questo rischio cosiddetto di ridenominazione – che consentirebbe in via di principio grandi profitti speculativi di breve termine – rimarrebbero con dei portafogli finanziari denominati nella moneta nazionale, con contratti nazionali e quindi subirebbero la svalutazione della loro piccola ricchezza, il risultato di anni di risparmi.

Come percettori di reddito fisso, avrebbero una drastica riduzione del potere d’acquisto a causa del tasso di inflazione. Oltretutto, ci sarebbe anche una non riproducibilità dell’attuale patto intrinseco che c’è tra la popolazione finanziaria, che è quella su cui si concentra la ricchezza e che ha redditi fissi che in qualche misura hanno tenuto, rispetto ai giovani, perché aumenterebbe ulteriormente il tasso di disoccupazione a causa del fatto che moltissime imprese uscirebbero dal Paese. Le grandi imprese sulla frontiera dell’innovazione tecnica non si farebbero incastrare da una situazione di questo genere, anche perché ci sarebbe il collasso del settore finanziario. Questo lo abbiamo visto in Grecia e ha meccanismi abbastanza semplici: se c’è una componente che effettivamente si è integrata a livello europeo e quello internazionale è quella del crediti-debiti tra istituzioni finanziare.

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