Da ragazza guardavo ai genitori dei miei amici, se non proprio come vecchi decrepiti (visto l’età media in cui si facevano figli erano probabilmente più giovani di me adesso,) come persone facenti parte di un’altra vita, dimensione. In ogni caso gente con cui non avevo niente in comune.

Gli amici dei miei figli non sembrano vederla così, o almeno, nei loro comportamenti non c’è niente che lo indichi. Interagiscono con me come fossi una di loro. Quando vengono a casa nostra transitano spesso nella stanza dove siamo noi, che magari vorremmo approfittare della presenza di un’amica per non avere tra i piedi i nostri figli, e cercano pretesti per attaccare bottone o trattenersi, neanche fossimo youtuber di fama internazionale.

Nel conversare con noi adottano metodologie comunicative uguali a quelle che usano con i loro amici, e non percepisco quel senso di rispetto, doveroso verso una persona di trent’anni più grande, che io uso ad esempio verso chiunque sia di molto più vecchio di me. Non mi aspetto il “voi”, ma spesso e volentieri c’è una confidenza inopportuna e fuori luogo.

A una ragazzina non piaceva il cd di Missy Elliot che stavo ascoltando (“non sa cantare”), un’altra motteggiava il mio accento ancora troppo parmigiano, un’altra mi impediva di completare una frase urlandomi addosso. I più si comportano come se fossi loro coetanea, un’amica.

Se da un lato mi fa piacere ispirare simpatia, dall’altra osservo un fenomeno frutto dei nostri tempi ma socialmente sbagliato, perché trattare un adulto alla stregua di un decenne non può essere accettabile. C’è una sorta di vuoto, un assottigliamento generazionale.

In parte è colpa degli adulti, che spesso si comportano come (o peggio) dei loro figli adolescenti. Non è la sola voglia di restare attaccati alle vestigia di una gioventù scappata via troppo in fretta, ma l’illusione di poter condividere le stesse esperienze, lo stesso percorso con ragazzi ai loro inizi.

Anche il linguaggio, formato da quei codici indirizzati a una determinata cerchia di persone, è mischiato al gergo comune e abbreviato; parlano allo stesso modo al compagno, alla maestra, al dottore.

In una società iperconnnessa non c’è solo l’uniformità culturale ma anche quella generazionale: genitori e figli finiscono per guardare gli stessi video, transitare per gli stessi siti, recepire gli stessi messaggi. Alla fine, si parla delle stesse cose, allo stesso modo.

Non dico che debba esserci riverenza o timore come vigeva in passato, ma il riconoscimento dei ruoli è importante, soprattutto per la crescita e l’identificazione di quelle regole comportamentali fondamentali nella vita adulta. Non vuol dire che l’uno debba opprimere l’altro o che una parte abbia più valore perché in possesso dell’autorità dettata dall’età, semplicemente che stiamo parlando di piani diversi, identità diverse.

Tutti desideriamo restare giovani (o almeno giovanili), e mantenere modalità amichevoli senza mai adottare il pugno di ferro che a volte la funzione di adulto richiede, è una tentazione forte. Mostrarsi uncool e non assecondare i favori che i ragazzini ci tributano, è più difficile che essere spiritosi, disponibili.

Volenti o nolenti siamo su due traiettorie molto distanti, e farlo vedere ai propri figli e ai loro amici non può che fare bene, per prepararli a relazionarsi in futuro.

E farli assomigliare un po’ meno a noi stessi.

Articolo Precedente

Slot machine, chi ci aveva accusato di antidemocrazia ora è a processo per diffamazione

next
Articolo Successivo

Io non sono un ‘gilet giallo’

next