Era dicembre, quando Amelia* mi raccontò di avere un tumore al seno. Parlammo a lungo, mentre i nostri figli di 5 e 9 anni giocavano a rincorrersi sereni tra le luci dei lampioni del porto antico di Genova. Ricordo la sua paura mentre mi confidava di essere malata e allo stesso tempo la determinazione mentre esplicitava la sua intenzione di non sottoporsi ad alcun approfondimento, visita e cura. Nessun ciclo di chemio, nessun “vivisezionamento”. Usò proprio questa espressione.

Provai con delicatezza a metterle davanti altre prospettive, e tutte le cose che si dicono a una persona che ha il cancro. Ma ricordo anche che una parte di me la capiva. Ho anche pensato che avesse coraggio e poi che non lo avesse, ma in fondo che importava… Coraggio o no era una scelta, la sua. Inevitabile fu la condivisione tra noi del pensiero verso quel bambino che giocava e ogni tanto si avvicinava per chiederle qualcosa; pronunciava “Mamma!” con quella vivacità e aspettativa che qualunque bambino esclama quando si rivolge a sua madre. Quella scelta, individualmente dignitosa e per me anche comprensibile nella sua rassegnazione, sarebbe stata una non scelta per lui. Per un figlio che aveva, come è ovvio, ancora bisogno di lei.

Ricordo i suoi occhi fermi nonostante fossero lucidi di dolore. Consapevoli. Amelia aveva già sofferto molto, Amelia aveva il suo vissuto, il suo percorso. Suo figlio è stato l’elemento più limpido e puro nel suo destino, non vi erano dubbi. Ci provai nonostante sapessi che aveva già deciso. Ci provai senza giudicare, perché in fondo non so cosa farei io se mi trovassi mai in quella che a dicembre scorso era la sua condizione. Nessuno lo sa. Ognuno cammina nelle proprie scarpe e in base a quanto gli sono state strette decide che fare. Se continuare, o lasciarle in un angolo e liberarsi da quel male terribile ai piedi. Liberare le dita, immaginare di camminare a piedi nudi sull’erba fresca.

Amelia aveva già deciso e, a distanza di 10 mesi, ha lasciato le scarpe nell’angolo. La malattia ha fatto il suo corso, lei si è addormentata e, dentro questo spazio di tempo, prima di questo spazio, dopo, e quindi soprattutto oggi, c’è il figlio di Amelia. Ha quasi 11 anni adesso, e in quello spazio temporale che va da dicembre scorso a oggi è ancora cambiato. Ho salutato Amelia per rispetto e con grande rispetto stamattina. Niente funerale, il silenzio davanti all’obitorio, e poi ci aspettiamo tutti a Staglieno, il cimitero genovese famoso per le meravigliose statue e opere d’arte. Non ci ero mai entrata. Siamo tutti ma siamo pochi. Perché le persone come Amelia non hanno quasi nessuno. Ma qualcuno c’è, qualche amico di vecchia data, il suo compagno, nessun parente. E poi c’è lui. Ed è in quel momento, quello in cui mi ritrovo davanti a quegli occhi grandi dalle ciglia lunghissime, che si porta dietro, in tutti i suoi preziosi cambiamenti, fin da piccolo, che sento il vuoto enorme lasciato da Amelia.

Lo vedo e lo sento sotto i pedi del piccolo Luca*, intorno. Luca, che oggi è un po’ più grande di dicembre scorso. Mi vede arrivare e mi saluta come se ci fossimo visti pochi giorni prima, perché i bambini come Luca hanno poche persone su cui poter contare. Come Amelia. E allora, tra quelle poche, se arriva qualcuno in più, lui a quell’abbraccio in più si abbandona. Ho retto al suo sguardo almeno per tutta la durata di quel lungo abbraccio e di quelle sentite carezze, e dei baci che ho provato dargli. Perché sono una mamma e, per un istante, ho desiderato che i miei baci anche solo per un attimo gli potessero bastare. Non possono bastare i baci di nessuno a quell’età, se non sono quelli della tua mamma. Ci ho provato. Di nuovo. Ci ho provato come ci provai con Amelia a dicembre scorso. Una rosa blu tra le mani, Luca gira la testa di qua e di là alla ricerca di qualcosa che non trova, e io resisto il tempo necessario, resisto abbastanza per non farmi vedere piangere; le sue lacrime, del resto, scendono piano e senza fare rumore. Amelia è libera da quelle scarpe che le hanno fatto male per troppo tempo e Luca ha bisogno di scarpe nuove dentro cui camminare.

Hannah Arendt sosteneva che siamo fatti per cominciare, non per finire ma per nascere più volte e, quindi, per ricominciare.

Amelia poteva trasformare la crisi, il buio e il dolore in una possibilità ma non ci è riuscita. Perché non è così semplice ricominciare per persone come lei, che è solo la protagonista oggi del mio racconto, dentro alle migliaia di storie di ordinaria sofferenza che non si raccontano mai. Oggi però voglio raccontare anche ciò che penso adesso, a distanza di qualche ora da quella rosa blu conficcata da un bimbo di quasi 11 anni nella terra umida. Luca avrà bisogno di scarpe nuove cucite con cura e attenzione. Su misura. Avrà bisogno di una scuola che supplisca, di relazioni che allevino, di un quartiere che lo adotti, che gli dia strumenti e possibilità di relazione, avrà bisogno di amore che consoli. E sappiamo tutti che certe periferie, quelle che hanno fatto delle case popolari un ghetto, quelle che lasciamo marcire e lasciamo sole, sono capaci di abbracciare senza avere nient’altro da offrire. Non è molto ma potrebbe bastare. Oppure no. Avrà bisogno di cose anche molto più semplici, pratiche, quelle che prima faceva per lui Amelia mentre il padre lavorava. Forse, ogni tanto, avrà bisogno di mettere le scarpe di sua madre per capire. Quelle scarpe lasciate lì… nell’angolo. Nell’angolo dove spesso si vive.

*I nomi protagonisti di questa storia sono di fantasia

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