di Tito Borsa 

Ieri sera il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha annunciato su Facebook di aver firmato nove autorizzazioni a procedere per vilipendio, tra gli accusati figurano Beppe Grillo, Carlo Sibilia, il padre di Alessandro Di Battista e Matteo Salvini. Bonafede spiega che quei fascicoli “erano sulla scrivania del ministro dal 2014” e che li ha firmati tutti perché “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge” e “nessuno deve godere di privilegi”.

Bene, bravo, bis. Grande Bonafede che si complimenta con se stesso: “La coerenza è un valore che va coltivato prima di tutto nelle istituzioni”. Se il lato istituzionale e burocratico della faccenda è limpido e chiaro, rimane il lato politico, su cui invece c’è molto da scrivere. Il ruolo di Bonafede in questa vicenda non è ovviamente quello del mero passacarte: la sua autorizzazione a procedere è importante, visto che si può anche non dare, e quindi diventa anche una scelta politica. Il ministro implicitamente afferma di condividere l’esistenza del reato di vilipendio, nonostante la sua lodevole spinta democratica ed egualitaria. Stiamo parlando del reato “antidemocratico” per eccellenza, che stabilisce che qualcuno vale più di qualcun altro solo in virtù della carica che ricopre.

La critica al comune cittadino può diventare calunnia o diffamazione, mentre la critica a chi ricopre un’alta carica pubblica può essere vilipendio. Certo, c’è la scadenza di mandato, ma rimane il fatto che in una democrazia abbiamo degli individui che per un periodo di tempo diventano meno uguali degli altri.

Bonafede, con fare pilatesco, decide di lavarsene le mani, di non affrontare la questione, limitandosi a firmare in modo aprioristico e acritico le autorizzazioni a procedere. Il peso del suo ruolo avrebbe dovuto imporgli di fare dei distinguo. Ogni caso va approfondito e magari firmato tutto non per prassi ma per convinzione.

Un reato liberticida come quello del vilipendio ha portato all’assurda condanna definitiva di Umberto Bossi a un anno e 15 giorni per aver chiamato nel 2011 l’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano “terrone” facendo il gesto delle corna. Ovviamente, se il destinatario dell’epiteto fosse stato chi scrive, sarebbe stata eccessiva anche un’accusa di ingiuria. Ma, evidentemente, per i 7 anni di mandato il presidente della Repubblica è un cittadino meno uguale agli altri.

Certo, il vilipendio può apparire come una quisquilia di fronte a riforme nel bene o nel male gigantesche come il dl Dignità o il reddito della cittadinanza. Ma rimane un dettaglio abbastanza significativo della democraticità di una democrazia.

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