Si racconta di uno scambio di battute tra il Cavaliere Benito Mussolini e il vecchio ministro liberale Giovanni Giolitti agli albori del regime fascista: «appena arrivati e già i tuoi si abboffano alla grande», irrideva lo statista di Mondovì. «Ma anche quelli di prima lo facevano spudoratamente ». «Sì. Ma almeno sapevano usare le posate».

Traslando all’oggi, si può dire che il leghisti, a banchetto da molto più tempo, hanno appreso un qualche rudimento di galateo istituzionale, di cui i neofiti pentastellati sono totalmente digiuni. Difatti i Di Maio boys cercano di darsi un tono (o farsi coraggio) sparando proclami roboanti, propri di quel mondo dello spettacolo da cui già Beppe Grillo aveva ricavato buona parte del proprio armamentario: dall’enfasi tipo sceneggiata napoletana strappalacrime o trionfalistica (“stiamo scrivendo la storia”, “aboliamo la miseria”, “il popolo ce lo chiede”) al truculento filmico da er Monnezza (“metteremo Mattarella in stato d’accusa”, “tutto il 2019 sarà dedicato a far fuori una marea di gente del Mef”).

Intanto Salvini & Co. se ne stanno tranquilli e sornioni, lasciando fare i loro improvvisati partner di governo, in arrampicata su parole in libertà (l’Oscar va alla pensata di Danilo Toninelli, detto Faina, che promette la trasformazione di un ponte sul desolato greto del torrente Polcevera e sovrastante depositi industriali in un’attrazione per famiglie tipo Disneyland); paghi – i leghisti – di incassare la completa legittimazione, che va traducendosi in un’incetta di consensi tipo boom. Oltre i vantaggi elettorali per le prossime europee ottenuti agitando il drappo rosso del deficit in faccia agli eurocrati dell’Austerity.

Il fatto è che, con posate o senza, la compagine di governo è una struttura bicefala predisposta soltanto alla ricerca del proprio rafforzamenti in una campagna elettorale permanente e ininterrotta. Come si è visto ancora una volta con la recentissima legge di bilancio che sfora abbondantemente le labili demarcazioni tracciate dal pigolante ministro dell’Economia – il fantasmino Giovanni Tria – affidandosi alla protezione di Padre Pio; assicurata dalla presenza, peraltro insignificante, del facente funzioni di premier Giuseppe Conte.

Scelta in materia economica che inquieta, prima ancora delle arcigne reazioni previste in arrivo da Bruxelles, per la totale mancata finalizzazione agli obiettivi dichiarati: la ripresa della crescita/sviluppo. Perché negli elaborati gialloverdi non è riscontrabile neppure un barlume di idee spendibili allo scopo. Passi per il pacchetto di mischia salviniano, intento a bastonare qualsivoglia retaggio di civiltà di passate stagioni; dai diritti delle donne al riconoscimento dell’Altro, per orientamento sessuale o colore dell’epidermide.

Sono i Cinquestelle per bocca del Luigi Di Maio a profondersi in garanzie che la manovra smentirà ogni riserva grazie alla sua natura espansiva. Ora, risulta difficile capire come tale effetto possa essere assicurato da un sussidio alla disoccupazione (quello che in realtà risulta essere l’impropriamente strombazzato “Reddito di cittadinanza”; che – tra l’altro – ignora le povertà assolute degli inabili e degli anziani in una visione da New Deal presente solo nei sogni alla Roosevelt del capo politico del Movimento), cui si assomma la totale assenza di un rudimento di politica industriale che possa rivitalizzare un sistema produttivo alla canna del gas e ormai in balia dei riders stranieri; dagli elettrodomestici Candy, finiti in mani cinesi, a Casa Versace, passata sotto il controllo americano.

Ma come addebitare tale colpa agli ilari ragazzotti, se il vuoto di pensiero generativo d’impresa risale almeno a un cinquantennio fa? Interrotto soltanto dal brevissimo periodo in cui Fabrizio Barca batteva l’Italia alla ricerca di iniziative imprenditoriali da valorizzare. Per poi essere di nuovo relegato tra le scartoffie da centro studi.

I Di Maio-Salvini sono solo l’ennesimo effetto di questo deficit culturale. Solo che, da bravi allievi del berlusconismo, lo riempiono con le astuzie comunicative dello spararle grosse e/o indicare capri espiatori da sgozzare.

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