Forse, prima o poi, qualcuno spiegherà al nostro vice premier Luigi Di Maio, il sorridente giovanotto specializzato in proclami roboanti (stiamo facendo la storia… impeachment per Mattarella… e altre amenità) che quando inforca il suo cavallo di battaglia si ritrova a cavalcioni di tutt’altro animale. Fuori di metafora, il tanto strombazzato “reddito di cittadinanza”, su cui gioca gran parte delle carte residue per non soccombere alla superiore capacità imbonitoria di Matteo Salvini, è ben altra cosa rispetto a ciò di cui parla. E lo si dovrebbe capite già dal momento in cui l’ilare Luigino ne collega l’erogazione alla perdita del posto di lavoro.

Difatti, al di là dei giochi semantici, quanto proposto non è altro che un sussidio di disoccupazione; per chi è stato colpito dagli effetti terribili della crisi ma tuttora in grado di svolgere attività lavorative. Dunque non “poveri assoluti”, soltanto persone in grave difficoltà. Cui è giusto dare una mano in attesa che riescano a ricollocarsi. Fermo restando che la povertà assoluta è qualcosa di ben diverso, che affligge soggetti senza prospettiva alcuna di essere recuperati come lavoratori in quanto a ciò inabili; perché anziani, mutilati, disabili o comunque affetti da gravi handicap che li mettono del tutto fuori gioco. L’area dove il disagio diventa miseria coinvolge milioni di nostri concittadini, ormai sbalzati completamente fuori dal campo visivo dei rivelatori ottici della politica. E si tratta anche in questo caso di oltre cinque milioni di persone, con tendenza ad aumentare, stante il costante invecchiamento del Paese. Ma – a quanto pare – una popolazione che non sembra interessare i professionisti del consenso, forse perché non particolarmente mobilitabile elettoralmente.

La ragione per cui il repertorio teatrale del reddito di cittadinanza viene indirizzato a un target diverso, in quanto presunto più aggregabile secondo logiche di scambio politico. Il vero problema che affligge il leader pentastellato, particolarmente dopo il sorpasso subìto da parte dalla Lega e la costante minaccia salviniana di andare all’incasso dei nuovi rapporti di forza tramite elezioni anticipate.

Ma se il pasticcio terminologico rivela improvvisazione, i vincoli di bilancio made in Bruxelles presidiati dal ministro Tria evidenziano clamorosi deficit strategici; sfruttati al meglio (pro domo sua) dalla bullaggine dell’altro vice primo ministro. Mentre tutto parla della perdita di spinta propulsiva dei 5S, ormai allo sbando. A partire dal posizionamento nelle scadenze europee. In avvio anticipato, come confermano l’incontro milanese Salvini-Orban e le risse Macron-Salvini.

Bel problema per Di Maio e soci: affrontare un confronto altamente connotato quando i posizionamenti possibili – sovranisti retrò contro europeisti mainstream – sono già tutti occupati; in un gioco dei quattro cantoni che penalizza la deliberata vaghezza pentastellare (non dare riferimenti e intercettare qualsivoglia indignazione), diventata l’handicap che impedisce di trovare il proprio angolo dove collocarsi. Finendo come il giocatore che è rimasto tagliato fuori.

Il rischio che sembra incombere sempre più minaccioso sul coté giallo del governo. Tanto da indurre l’impressione che queste acrobazie programmatiche sul filo di bilanci pubblici a rischio costante di spezzarsi, questo ridurre la vicenda dell’Ilva di Taranto all’estenuante gioco ai rialzi di un mercanteggiamento furbesco, più adatto al Suq di Marrakech che non alla sopravvivenza di un grande insediamento industriale, questo dire e poi rimangiarsi sparate dilazionatorie sul viadotto del Polcevera, mentre l’economia genovese e la portualità italiana attendono immediate soluzioni, questa immagine perennemente ridanciana sembrano solo segni di malcelato imbarazzo. E il cambiamento annunciato, la politica dalla parte del popolo, diventano gag.

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