“Oggi, con un mix di emozioni, annuncio il mio ritiro dal basket. Provo immensa gratitudine per chiunque (famiglia, amici, compagni, allenatori, staff, tifosi) abbia fatto parte della mia vita negli ultimi 23 anni. È stato un viaggio favoloso. Ben al di là dei miei sogni”. Queste le parole scelte da Emanuel David ‘Manu’ Ginobili per dare un ultimo abbraccio all’amore più grande: la pallacanestro. Le voci di un possibile addio palleggiavano ormai da alcune stagioni attorno alla parabola sportiva della 41enne guardia mancina argentina, eppure quel commiato affidato a un semplice “cinguettio” ha scosso il mondo Nba e i milioni di appassionati di basket che hanno potuto ammirare per oltre due decenni le giocate del Mascalzone latino.

Nato e cresciuto nella provincia di Buenos Aires, Manu educa il proprio basket lungo le spiagge saline di Bahia Blanca, sfidando i fratelli Sebastian e Leonardo sotto lo sguardo attento del padre Jorge, coach della squadra locale. Nel 1998, con 21 anni in tasca e un taglio militare per cappello, sbarca in Italia, a Reggio Calabria, città di mare e canestri. Qui ruba i sorrisi dei tifosi della Viola e incanta la Serie A per classe guascona e sfrontato atletismo, attirando persino l’interesse della National basketball league e dei San Antonio Spurs freschi di titolo, che riescono ad aggiudicarselo con la 58° chiamata al Draft del 1999. El narigon (Il nasone) sceglie però di rinviare le sirene texane e di completare la propria maturazione nel campionato italiano. Dopo un’altra stagione sullo Stretto, se ne va alla Virtus Bologna di Ettore Messina – oggi vice-allenatore proprio degli Spurs e tra i tecnici più titolati di sempre – che sceglie il fuoriclasse sudamericano per mettere una pezza all’improvviso abbandono della star serba Predrag Danilović. Qui incrocia un giovanissimo Marco Belinelli, ancora diviso tra giovanili e prima squadra, e completa il Grande Slam afferrando in un sol colpo Scudetto, Coppa Italia ed Eurolega.

La stagione 2002/2003 vede l’allunaggio di Ginobili in Nba. Nonostante le fiammeggianti prestazioni dell’argentino ai Mondiali di Indianapolis, la superficie dell’universo americano si rivela però assai più ostica di quanto preventivato per il genio mancino. Limitato dall’iniziale repulsione per la rigida disciplina di coach Gregg Popovichdeus ex machina della franchigia texana, Manu riesce a ritagliarsi poco più di una ventina di minuti a partita. Eppure, anche se subentrando dalla panchina, El narigon ha di che festeggiare a fine anno, con texani in canotta nerargento che si aggiudicano il secondo anello della propria storia e con il compagno Tim Duncan che solleva il trofeo di Mvp delle Finals. Da qui in poi si fa la storia. Con la diffidenza nei confronti di Popovich che va ad appianarsi e con la guardia argentina pronta a battezzare una vera e propria dinasty. Finalmente libero di coltivare il proprio estro all’interno di un sistema che affida a lui e al playmaker francese Tony Parker la propria fonte principe di fantasia, infatti, Ginobili illumina il firmamento Nba, collezionando altri tre titoli (2005, 2007 e 2014) e incrementando l’argenteria di casa con un premio di Sesto uomo dell’anno e un paio di convocazioni all’All Star Game. Le giocate memorabili per astuzia, bellezza e intelligenza cestistica? Non si contano.


A incastonare la gemma più preziosa nella corona della guardia di Bahia Blanca, tuttavia, sono Atene e le Olimpiadi del 2004, con la nazionale albiceleste che si mette al collo l’oro. In quell’edizione, dopo aver ridotto a stracci le presunzioni del team Usa di Allen Iverson e Lebron James, a subire l’estocada dei sudamericani furono gli Azzurri guidati da Jack Galanda e Gianmarco Pozzecco. Neppure i “tiri ignoranti” di uno scatenato Gianluca Basile, infatti, furono sufficienti ai ragazzi di coach Charlie Recalcati per reggere l’urto di un indemoniato Emanuel, assoluto protagonista e premiato con il titolo di Mvp della manifestazione. Della “campagna ateniese” vale la penda di ricordare un paio di aneddoti presi in prestito da Federico Buffa. Il primo riguarda il ritiro albiceleste e la palestra della Nazionale letteralmente invasa dal gelo. I giocatori – professionisti tenuti a render conto di un contratto più che delle lacune della federazione – scelgono di non allenarsi. Tutti, tranne uno. Manu indossa infatti guanti ed eskimo e prende a girare per il campo. E se si allena lui… Ecco quando nasce la mitologia di un gruppo la cui straordinaria epica è arricchita poi dall'”inebriata goliardia” del Chapu Andrés Nocioni che, preda dell’alcol e dei festeggiamenti per l’oro appena conquistato, diede un calcio alla palla della Finale scagliandola chissà dove e lasciandola così alle cure di un bambino tanto fortunato da non sospettarlo nemmeno.

Senza Manu Ginobili il basket perde uno dei suoi più straordinari interpreti, un professionista capace di farsi amare e rispettare da tifosi e avversari. Un uomo gentile, innamorato della propria famiglia e dell’Argentina. La scorsa stagione è stata dunque il suo ultimo tango. In molti speravano in un altro giro ma, d’altronde, i giganti preferiscono così: abbandonare la scena quando ancora riescono a illuminarla.

Twitter: @Ocram_Palomo

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