Le riflessioni di mezza estate dei commentatori che dalle pagine dei giornaloni non si rassegnano al risultato uscito dalle urne il 4 marzo e alle fin troppo note “vicissitudini”, da cui come unica soluzione praticabile è nato il governo giallo-verde, non vanno oltre la miopia e la partigianeria poco lungimirante a difesa di un sistema pluriventennale andato in frantumi.

L’ossessione per “lo spettro pupulista” che si aggirerebbe tra Stati Uniti ed Europa di cui Donald Trump e Beppe Grillo, posti incredibilmente sullo stesso piano, sarebbero i campioni più rappresentativi aveva già indotto “l’intellettuale a capo del think tank renziano” Giuliano da Empoli autore del pamphlet La rabbia e l’algoritmo, a individuare nel nostro Paese una “Silicon valley“, e cioè un allarmante avamposto e un diabolico laboratorio del populismo dilagante.

Poco importa che finora, stando al bilancio concreto dei primi due mesi di governo, ci sia stato il decreto dignità, a cui si poteva attribuire anche un nome meno altisonante, che ha ridotto i danni del Jobs Act; la rottamazione dell’Air Force Renzi, costoso e inutile frutto della megalomania dell’ex rottamatore; un alt al pericoloso pasticcio sulle intercettazioni. Niente di eclatante e probabilmente al di sotto delle aspettative di molti elettori del M5S ma ancor meno qualcosa di tanto allarmante da essere additato come il pernicioso mix di “paranoia antistatalista” e di “vetero anticapitalismo” alla base del virus populista di cui il M5S sarebbe il diffusore e il rappresentante più significativo.

Con lo sguardo tenacemente rivolto al passato in una coazione a ripetere senza fine i detrattori a prescindere del presunto populismo grillino, termine usato in modo altrettanto improprio e strumentale del “giustizialismo” coniato illo tempore da Giuliano Ferrara per denigrare chi non si arrendeva all’impunità per i potenti, si affannano a cercare genesi e collegamenti storici in grado di spiegare “il populismo italiano”. Christian Rocca qualche giorno fa in una colorita ricostruzione storico-sociologica sulla Stampa intitolataQuel ponte che unisce il populismo del 2018 alla rabbia del popolo dei fax, ai miei occhi sembra non avere dubbi sulle origini prime dell’allarmante fenomeno per cui i cittadini pretendono di vedere realizzato da quelli che hanno votato ciò per cui si sono impegnati in campagna elettorale e non l’esatto contrario. E nemmeno riguardo l’inaudita pretesa degli elettori, sempre più intossicati dal mito illusorio e fallace della democrazia diretta, di vedere  che i loro rappresentanti  in parlamento legiferino prioritariamente in funzione dell’interesse dei rappresentati e nel rispetto dei loro diritti, come si evince anche dalla Costituzione, piuttosto che per garantirsi e mantenere privilegi, alimentare sprechi e ruberie, accordarsi spesso in una permanente società fondata sul ricatto, sulla connivenza o nella migliore delle ipotesi su una malsana tolleranza.

L’inizio di questa perniciosa “deriva populista” andrebbe collocata sempre secondo l’autore, che continua a rappresentare nel modo più genuino l’avversione viscerale per la stagione di Mani Pulite del Foglio di cui è stato partecipe, ben prima di quella che definisce la “campagna pubblicistica” contro la Casta del 2006 e cioè nel 1993 “anno in cui i partiti politici, le tv generaliste e i grandi giornali iniziano ad invocare il fantomatico ‘popolo dei fax’ che protesta contro la classe politica, contro l’establishment e contro l’élite del paese”. Magari per chiarezza e completezza di informazione sarebbe il caso di ricordare che l’informazione si curava del “popolo dei fax” solo perché era temporaneamente libera dal condizionamento della partitocrazia autodissolta nel vortice della corruzione e che la voce via fax dei cittadini più che “il commentatore rancoroso dei social di allora” rappresentava una legittima richiesta, calpestata in totale continuità da prima e seconda repubblica, di trasparenza, legalità, difesa dell’indipendenza della magistratura, rifondazione della politica.

Se poi, come sostiene Rocca, “‘il popolo dei fax’ aveva la stessa composizione politica, sociale e popolare dell’attuale maggioranza di governo” e persino “le stesse istanze, lo stesso lessico, lo stesso risentimento” a doversi interrogare, per usare un eufemismo dovrebbero essere i due soggetti politici che da allora a oggi si sono impegnati a “sfruttare elettoralmente il fuoco populista e allo stesso tempo a cercare di domarlo”.

Quali meriti vadano attribuiti in tal senso a Pd e Forza Italia mi risulta difficile da comprendere: se esistesse davvero “un guaio tutto italiano” condensato nel combinato disposto Salvini-Di Maio, a cui stando ai sondaggi credono in pochi, gli artefici massimi condannati all’irrilevanza politica per eccesso di zelo nel raggirare gli elettori sono gli ex furbetti del Nazareno.

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