Sono un uomo felice, questo quasi mi spaventa. La felicità è essere fecondi e produttivi. Ogni giorno scrivo o faccio un film, ogni giorno sono fecondo, nulla dies sine linea. La mia felicità è inattaccabile, nemmeno le notizie sono in grado di scalfirla. La mia felicità è una forma di egoismo spalancato sul mondo, pronto ad abbracciare il mondo. Nemmeno la notizia di un censimento razzista è in grado di farmi diventare triste, penso subito a un censimento dei neuroni di chi ha fatto questa ignobile proposta e mi viene da sorridere, sarebbe un censimento velocissimo. Nemmeno questo Governo populista e malato della più insulsa retorica è in grado di intristirmi.

Qualcuno ha scritto che bisogna essere felici, almeno per dare l’esempio. Ognuno di noi deve coltivare un personale “controdolore” da sbattere in faccia a chi ci vuole vigliacchi, ipocriti, remissivi, insensibili, superficiali. Tra la vita personale e la vita dello sciame c’è un punto di contatto, il mio punto di contatto con lo sciame della storia si chiama Believe, un migrante nigeriano sopravvissuto all’annegamento e approdato sulle coste italiane un anno fa.

Ogni giorno vedo Believe davanti al bar dove vado a prendere il caffè quotidiano, lo vedo che chiede l’elemosina con una dignità solare, sempre pronto a donare un saluto e un sorriso e dato che io amo le persone che mi sorridono, un giorno ho offerto a Believe un pranzo e abbiamo parlato. Abbiamo parlato di musica, di fede, di amore, poi lui mi ha descritto il suo viaggio della speranza sul barcone, la speranza è la prima ad annegare, mi ha detto che ha visto affogare un compagno di viaggio, inghiottito per sempre dagli abissi della nostra indifferenza, dei nostri privilegi.

Believe, che nome meraviglioso! Believe crede, crede di potere dare dignità alla propria vita, crede in un lavoro, uno qualsiasi, crede che ci sia un dio a proteggerlo. Non ho mai conosciuto un uomo più dignitoso di Believe, di una fierezza gentile come un fiore illuminato. Non ha certo bisogno di trovare un lavoro per avere dignità, il lavoro gli porterà la possibilità di costruire qualcosa, di avere una famiglia ma non la dignità, quella è già connaturata al suo essere, al suo essere Believe, un uomo che crede. È giovane, bello, forte, sorride. E crede.

Il giorno dopo ho invitato Believe a mangiare un piatto di spaghetti a casa mia insieme a degli amici, gli ho detto che sono un filmmaker e che mi sarebbe piaciuto fargli un videoritratto. La mattina dopo mi sono presentato con la mia videocamera, lui era come al solito davanti al bar, mi ha sorriso e ho letto nei suoi occhi un disappunto, non era sfiducia nei miei confronti, era qualcosa di molto più importante, era la sua verità che mi sussurrava: prima di cogliermi devi conquistarmi. Si è defilato con eleganza, dicendomi che non era vestito bene, che per oggi non gli andava di essere filmato.

Che cosa credevo? Di lavarmi la coscienza con un cortometraggio? Believe non ha bisogno di immagini, non è un privilegiato come me, Believe ha bisogno di continuare a credere in un progetto di vita, ha bisogno di continuare ad essere se stesso: Believe. E nonostante tutto, anche se mi sento in colpa, sono felice, felice di averlo conosciuto, felice di averlo ascoltato, di avere messo i miei occhi nei suoi occhi. Anche io voglio essere come Believe, anche io voglio continuare a credere e per una volta: senza immagini. Senza un film, rispettando e amando la sua verità.

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