La signora Antonella Mari porta la sua medaglia letteralmente sul cuore: è un elettrodo che nessuno è riuscito più a estrarre dei cinque dimenticati. Ultima, ma non la più incisiva anomalia di un’operazione al cuore che doveva guarirla ma ha finito per mandarla in coma e immobilizzarla per il resto della vita. Con la sua polo rosa e gli occhiali rossi come le scarpe, sulla sedia a rotelle e una copia del Fatto in mano, non parla ma la sua presenza testimonia una richiesta di giustizia con il sorriso sulle labbra. E’ lì come a dire “eccomi, sono viva e ho bisogno che lo sappiate. Non fate finta che non sia così. Domani può toccare ad altri”.

Con la sua medaglia Antonella Mari era in aula a fine maggio, davanti alla Cassazione chiamata ad esprimersi sulla causa intentata insieme ai suoi familiari contro l’ospedale San Raffaele di Milano per veder riconosciuta la responsabilità della struttura, anche per colpa professionale dei chirurghi che nel 2003 eseguirono un intervento alla valvola mitralica. Doveva essere un intervento di routine, e così fu presentato alla paziente che barrò la casella: rischio “normale”. Nessun rischio le fu prospettato di “complicanze” gravi quanto inevitabili. Ma dopo l’intervento, Antonella non si è svegliata, e così per altri 16 giorni. Al risveglio, poi, non sarebbe stata più la stessa: a quarant’anni, e ancora oggi, si è ritrovata a non muover gli arti e non riuscire a sostenere il peso del proprio tronco. E’ stata una bolla d’aria, in gergo medico anossia cerebrale diffusa, durante l’intervento a causarle un danno biologico permanente. Del quale però, nessuno ha colpa, almeno secondo i giudici di primo grado.

Nel 2015 il Tribunale di Milano aveva dato torto alla famiglia, accogliendo le ragioni della controparte ospedaliera, forte di una contro-perizia che, tra le altre cose, riconduce la complicanza della bolla d’aria alla base del danno a un’occorrenza statistica dall’1,5% al 5,2% dei pazienti sottoposti a intervento a cuore aperto. Una fatalità, dunque. Non un evento causato da imperizia o negligenza. Scontro di perizie, pronuncia sfavorevole dei giudici, ricorso in appello dichiarato inammissibile. La famiglia di Antonella già colpita anche nella capacità economica per provvedere alla fisioterapia quotidiana e prolungata finirà per pagare 20mila euro di spese legali.

E tuttavia, proprio come Antonella, non si arrende il figlio che all’epoca dell’operazione era solo un ragazzo e oggi è un uomo fatto e finito che divide il suo tempo tra il lavoro e la cura della madre. “Non mi pento di non aver fatto denunce penali all’epoca, anche se forse sarebbe stato il caso” racconta Matteo Corati. Aveva 21 anni, studiava a Roma e tutta l’attenzione sua e di suo padre si è rivolta allora alle condizioni della madre, la responsabilità da accertare pareva secondaria. “Ricordo perfettamente il personale in lacrime, pure l’aiuto-primario piangeva. Quando ho capito che la situazione non era reversibile, il danno permanente, ho maturato la convinzione che fosse necessario andare a fondo. Ho chiesto un colloquio al primario che solo dopo molte insistenze mi ha dedicato cinque minuti. E mi ha detto: “Non ci resta che pregare”.

Il ricorso in Cassazione è affidato all’avvocato Ugo Ruffolo, professore ordinario a Bologna, consulente televisivo ed esperto di responsabilità medica (un suo volume sull’argomento circola da anni ed un nuovo volume uscirà a breve). Matteo e Antonella, erano presenti in aula, consapevoli delle difficoltà della causa, potendo la Cassazione, giudice di “legittimità”, prendere in considerazione i soli errori di diritto o le incongruenze logiche patenti delle decisioni impugnate, senza poter tornare sul fatto; e restando preclusa ogni “domanda” o profilo nuovi non rappresentati dai precedenti difensori nei pregressi giudizi di merito. Il professor Ruffolo ha però rappresentato come giuridicamente quanto logicamente erronee le pronunce di merito impugnate. Definivano la tragica condizione di Antonella come effetto di “complicanza prevedibile ma non prevenibile, nota alla paziente, e per la quale aveva prestato consenso”, laddove, al contrario, era mancata sia quella consapevolezza che solo una adeguata informazione avrebbe permesso, sia la prova della corretta esecuzione dell’intervento, in presenza della quale soltanto si poteva confinare il giudizio causale alla “complicanza non prevenibile”.

La patente carenza di adeguata informazione sui gravi rischi di “complicanza” e la mancata produzione di ecografia e radiografia capaci di certificare la corretta esecuzione della operazione, avrebbe dovuto far ritenere non raggiunta quella prova. Laddove, invece, illogicamente e male applicando la legge, quei giudici avevano ritenuto raggiunta la prova basandosi solo sulle fuggevoli affermazioni (crocette barrate) della cartella clinica e senza prendere in considerazione la mancata produzione delle radiografie; sia qualificando “presunta” la corretta esecuzione delle operazioni di “spurgo” dell’aria, in quanto semplice, meccanica e di routine. “Presunzione” questa, per tragica ironia della sorte, smentita persino dal fatto che quei “presumibilmente corretti” chirurghi avevano persino commesso il marchiano errore di “dimenticare” cinque elettrodi (scoperti quattro anni dopo) nel martoriato addome della povera Antonella. Uno sta ancora lì col sul filamento, come il punto di domanda sulla sua richiesta di giustizia.

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