Dopo mesi di assenza oggi ritorno a scrivere un post su questo blog.

Una assenza dapprima accaduta, complice inizialmente un blackout informatico durante una vacanza nella quale avrei invece pensato di dedicarmi alla scrittura e all’invio di vari articoli. Un’assenza poi rinnovata allo stesso modo con l’ulteriore complicità delle ripetute bufere di neve nella mia amata montagna altoatesina, dove durante questi mesi ho trascorso lunghi periodi.

Così ho sperimentato più volte l’assenza di comunicazioni.

Telefono scarico e connessione internet defunta. Niente sms, niente mail, né Whatsapp o Facebook. Il tempo che trascorreva così, nel bianco soffice della neve che ottunde tutto, anche le comunicazioni. E sperimentavo l’assenza.

Un’assenza che in tutto questo tempo si è fatta scelta. Una scelta spontanea, quella di fermare per un po’ alcuni ingranaggi. E come è venuta, così è passata, come ogni cosa nella vita se la si lascia accadere e dunque eccomi di nuovo a scrivere, sebbene l’assenza abbia lasciato un segno irreversibile in me.

La memoria dell’assenza ha mutato direi persino il mio Dna. Di questo segno vi voglio parlare nel post di oggi, dei suoi effetti nei post successivi.

Perché se è vero che siamo tutti esseri umani accomunati da una fisiologia e una psicologia assimilabili, allora posso immaginare che gli straordinari effetti di trasformazione che l’assenza ha avuto su di me, potrebbero giungere anche a chi mi legge e favorirne, attraverso le mie parole, altrettanta trasformazione. Incredibilmente nell’assenza esiste una pienezza incommensurabile. E le immagini che diamo di noi al mondo e che gli altri si aspettano da noi si mostrano in tutta la loro effimera impermanenza.

È in quella intercapedine di tempo che apprezziamo l’essere in noi.

È in quel non tempo che scopriamo quanto le identificazioni con ciò che pensiamo e ciò che vogliamo essere, ci allontanino dall’essere stesso in noi.

Senza comunicazioni non ho avuto che me e quel che con me coesisteva in quel momento.

Non avendo che me non avrei potuto guardare altro se non me, in me.

E così ho fatto. Sorprendentemente non vi era alcuna mancanza.

Le fotografie che si fanno e poi si postano, ad esempio, mi apparivano d’un tratto ingannevoli caricature di falsa spontaneità.

Forse le identificazioni che ad esempio le pratiche meditative ci aiutano o ci inducono ad abbandonare si potrebbero spiegare in questo modo: scegli una fotografia di te stesso e dici “io sono così” e poi in quella fotografia resti imprigionato. Sei quella immagine e non puoi essere altro.

E poi quella immagine governa te stesso.

Le tue scelte dipendono da cosa gli altri si aspettano da te, dal rischio di poterli deludere, di poter far loro perdere la proiezione di se stessi che avevano messo su di te. È curioso come questa nostra società ci induca alla visibilità costante quando è proprio questa che rischia di costituire una delle nostre prigioni più potenti e una delle maggiori fonti di infelicità. A meno che non si coltivino i doni dell’assenza.

Si può essere presenti e assenti al contempo? La risposta è sì e deriva dalla pura esperienza di chi l’ha vissuto, senza averlo pensato.

Essere assenti e presenti al contempo significa aver abbandonato qualsiasi immagine di sé, aver smesso di guardare la foto e dire “io sono questo”, significa aver scelto la libertà del mutamento interiore che ti fa somigliare a te stesso ogni istante un po’ di più, indipendentemente dal “cosa penseranno di me”.

È allora che sgorga una felicità interiore che viene dall’assenza di pensieri, dal tempo che si perde nel tuo agire, dall’abbandono alle cose come sono e alle azioni spontanee. Perché come dice il saggio cinese, accade solo quel che deve accadere. Diventiamo tristi caricature di noi stessi quando inseguiamo quel che dovrebbe essere e come dovremmo essere.

Nel mio ciclo Liberi tutti già lo avevo anticipato quel fastidio di chi ci dice che dovremmo essere in un certo modo, di chi ci porta ad esempio qualcun altro a cui dovremmo assomigliare  o di quella tendenza dentro di noi a cercare quel che non c’è spesso dove non potrà in nessun modo esserci. L’assenza mi ha donato occhi per vedere le illusioni e distinguerle dalla mia essenza, restando immersa nelle azioni che compio istante dopo istante.

È così che è sbocciata di nuovo la magia dell’espressione e la sorgente delle parole ha cominciato a sgorgare.

Praticate l’assenza dalle vostre immagini se vi va e, con la semplice magia di un gioco di vocali, l’assenza condurrà alla felicità dell’essenza.

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