Nel sesto anno del suo pontificato, Francesco si trova in uno scenario internazionale, che è molto meno favorevole alla tradizionale linea della Santa Sede e alla strategia profetica e geopolitica del Papa argentino di quanto non fosse al momento del suo insediamento. I mutamenti più stridenti e che procurano più spine alla tradizionale politica vaticana riguardano l’Occidente, l’Europa e la Terrasanta. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, la Santa Sede e Washington sono su sponde opposte per quanto riguarda questioni fondamentali.
Al di là della cortesia diplomatica e della volontà di mantenere buoni rapporti Bergoglio e Trump sono su una lunghezza d’onda totalmente diversa.

D’altronde già nella lunga fase precedente le elezioni presidenziali statunitensi il papa argentino aveva fiutato il pericolo e – fatto inusuale per la Santa Sede – era intervenuto per ben due volte nella campagna elettorale. Una prima volta ricevendo per pochi minuti a Santa Marta il candidato Bernie Sanders – pochi minuti ma tali comunque da mostrare un favore nei confronti del politico americano più vicino alle concezioni dello stato sociale di stampo europeo e più lontano alla destra trumpiana del liberismo selvaggio e del fondamentalismo – e una seconda volta attaccando direttamente Trump sulla questione del muro tra Messico e Usa.

Era accaduto nel febbraio 2016 in un colloquio con i giornalisti di ritorno dal viaggio in Messico: “Chi pensa solo a fare muri e non ponti, non è cristiano. Questo non è nel Vangelo. Votarlo o non votarlo (Trump)? Soltanto dico che se ha parlato così, quest’uomo non è cristiano”.

Dal momento in cui il nuovo presidente degli Stati Uniti si è insediato sono state ben tre le decisioni di politica internazionale che hanno collocato Washingotn su una linea opposta a quella Vaticana. Il ritiro dagli accordi di Parigi sul clima. Il ritiro dall’accordo Onu sulla protezione dei migranti e rifugiati, il cosiddetto Global compact on migration. Il ritiro dall’Unesco con il pretesto che vi sarebbero “persistenti pregiudizi anti-Israele”.

L’ultimo punto entra nel vivo della politica mediorientale, perché Trump nel dicembre del 2017 ha deciso inoltre di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, rovesciando la politica precedente di tutti i presidenti americani e mandando all’aria gli accordi di Oslo che dovevano chiudere il conflitto israelo-palestinese. Per la Santa Sede accreditare che tutta Gerusalemme (non solo la parte Ovest israeliana ma anche la parte Est araba) sia la capitale di Israele significa sabotare ogni equa soluzione: sia quella di Gerusalemme con uno status internazionale speciale come capitale delle tre religioni sia quello di Gerusalemme come sede delle capitali di Israele e Palestina (la parte occidentale agli uni, la parte orientale ai secondi).
Il Vaticano e Francesco non hanno la minima intenzione di aprire un conflitto con Israele per non aprire le ferite della storia travagliata dei rapporti Chiesa cattolica-Ebraismo e delle colpe di antigiudaismo di cui è piena la storia cristiana.

Ma la cautela diplomatica non significa che in Vaticano non vi sia allarme per la politica di sistematica annessione e occupazione che il governo della destra nazionalista e fondamentalista porta avanti, ingoiando anno dopo anno territori che appartengono alla Palestina con l’obiettivo chiarissimo di imporre il fatto compiuto. Divisi da giudizi differenti sulle riforme di Francesco i membri della Curia convergono tuttavia nel giudizio che emerge dalla visione delineata recentemente dallo scrittore israeliano David Grossman allorchè denuncia: “Quando Israele opprime un altro popolo per 51 anni, e occupa le sue terre, e mette in piedi una realtà di apartheid nei territori occupati, ecco che diventa molto meno di una casa…”

Preoccupa anche Fracesco e la Segreteria di Stato la forsennata campagna che il primo ministro israeliano Netanyahu conduce contro l’Iran, aizzando gli Stati Uniti a colpire Teheran (facendo anche leva sull’Arabia Saudita e i suoi progetti di egemonia). Non è stata dimenticata in Vaticano la campagna altrettanto forsennata che all’epoca i governanti israeliani lanciarono per spingere Bush junior a invadere l’Iraq. Una guerra sciagurata che papa Wojtyla condannò e tentò di contrastare in tutti i modi. Già incombe sulla scena internazionale la (sembra imminente) scelta di Trump di rompere l’accordo con Teheran sul nucleare.

Per restare al Medio Oriente il grande cruccio del Papa è la mancata collaborazione fra le grandi potenze (Usa e Urss in primis) per gestire insieme la crisi siriana. Bergoglio lo ha ripetuto ovunque da Est a Ovest: non è con la politica delle sfere di influenza che si riporta la pace in Siria. Praticare politiche di potenza non fa altro che prolungare la scia dei morti e le sofferenze dei sopravvissuti.

Ma anche lo scenario europeo preoccupa fortemente Francesco. Il proclama dei “paesi nordici”che vogliono impedire un rafforzamento dell’Unione europea. Il blocco dei quattro paesi di Vysegrad (Polonia, Cechia, Ungheria, Slovenia) cui si aggiunge l’Austria: compatti nel propugnare un’aggressiva politica “fuori i migranti”, condivisa dal leader del centro-destra italiano Matteo Salvini.

E non manca in questa corona di spine per la profezia di Francesco la constatazione che la destra nazionalista e integralista polacca è stata capace di mobilitare (ottobre 2017) un milione di manifestanti, che inneggiano alla “Polonia cattolica” formando una “catena del rosario” lungo i 3.500 chilometri delle frontiere polacche: in un delirio fondamentalista, che ha messo in un unico calderone terrorismo, secolarizzazione, islam e migranti come mali da scongiurare.

E’ freddo il vento che spira intorno alla geopolitica vaticana on questo scorcio d’epoca. E l’elenco può continuare. La Turchia, dove risiede il patriarcato ecumenico ortodosso,  diventa sempre più repressiva. E la Cina non vuole accettare un accordo che almeno parzialmente lasci libero il Papa di scegliersi i suoi vescovi.

TRUMP POWER

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