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“L’Espresso non ha diffamato la virologa Ilaria Capua”: il gip archivia il processo contro il settimanale

I fatti risalgono al 2014, quando la virologa denunciò il giornale per diffamazione a causa di un’inchiesta in cui si dava conto dell’indagine penale in cui la scienziata, poi risultata estranea ad ogni addebito, veniva di fatto accusata di aver diffuso il virus dell’aviaria per fare soldi con l’offerta di un vaccino
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L’Espresso non ha diffamato la virologa Ilaria Capua. È quanto deciso dal gip del tribunale di Velletri, Gilberto Muscolo, che ha archiviato il procedimento che vedeva imputati l’allora direttore del settimanale Luigi Vicinanza e l’attuale vicedirettore, Lirio Abbate. Contestualmente il gip ha ordinato la restituzione degli atti al pubblico ministero per la prosecuzione delle azioni di sua competenza con riferimento al reato di “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”. I fatti risalgono al 2014, quando la virologa (direttrice del Centro di eccellenza One Health all’Università della Florida) denunciò L’Espresso per diffamazione a causa di un’inchiesta giornalistica in cui si dava conto dell’indagine penale in cui la scienziata, poi risultata estranea ad ogni addebito, veniva di fatto accusata di aver diffuso il virus dell’aviaria per fare soldi con l’offerta di un vaccino.

La procura della Repubblica di Velletri, dopo aver esaminato gli atti processuali e la documentazione prodotta dalla difesa, ha chiesto al gip l’archiviazione del procedimento. Decisione cui si è opposta la dottoressa Capua. Il giudice ha però rigettato il ricorso, affermando che – come si legge nella motivazione – “il testo dell’articolo è una fedele ricostruzione delle risultanze investigative acquisite dalla procura della Repubblica di Roma” e che “non è una semplice invettiva personale ai danni della Capua, dato il concreto interesse della collettività a conoscere tale vicenda ad alto impatto sociale“. Il giudice, facendo poi riferimento alla copertina del settimanale che illustrava la notizia dell’indagine giudiziaria, ha inoltre ritenuto che “i termini, le frasi e le immagini utilizzate (…) siano artifizi e mere enfatizzazioni letterarie, impiegati per una personale ma fedele ricostruzione dei fatti, senza avere un carattere denigratorio e lesivo alla reputazione della querelante”.

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