Non tutto quel che si dice (o si può dire) corrisponde al vero: è la regola numero uno della diplomazia. Qualcuno la scambia per ipocrisia. Per esempio, la narrazione diffusa in questi giorni da Bruxelles sottolinea una ritrovata “unità”, consolidata dalla forte risposta “senza precedenti” che l’Occidente ha dato a Mosca, sul caso del tentativo di assassinio (lo scorso 4 marzo, a Salisbury, nel sud dell’Inghilterra) della spia russa Sergej Skripal, 66 anni, e di sua figlia Yulia, 33 anni, intossicati da un potente gas neurotossico di quarta generazione messo a punto in Unione Sovietica negli anni Ottanta, il Novitchok. Skripal aveva fatto il doppiogioco coi servizi inglesi, quando lavorava per il Gru, l’intelligence militare russa. Mosca è stata considerata responsabile dell’attacco col gas nervino in territorio britannico. Così, sulla base di quest’accusa l’Occidente, ha fatto “fronte unito” ed ha imposto come ritorsione l’espulsione in massa dei diplomatici russi. 

Ma quale Occidente? Quello della Nato. Quanto all’Unione Europea, l’unità è solo una bella parola. Il fronte occidentale ha palesato fessure qua e là, una decina di Paesi europei ha preferito non allinearsi ai voleri di Washington, Londra e Berlino. D’altra parte, le sanzioni adottate nel 2014 contro la Russia (dopo l’annessione della Crimea e l’abbattimento del volo MH17 nell’est dell’Ucraina in mano ai secessionisti filorussi) sono già costate più di 60 miliardi di euro ai paesi europei (e 40 miliardi alla Russia) e  anche questo contenzioso comincia a essere messo in discussione, anzi, a non riscuotere più l’unanimità. 

L’Austria, per esempio, è stata beffarda nello smarcarsi dal fronte occidentale anti Mosca: “La decisione è giusta, ma noi non vi partecipiamo, vogliamo mantenere aperti i canali di comunicazione con la Russia”. Vienna non fa parte della Nato, vuole enfatizzare il suo ruolo – già attivo durante la prima Guerra Fredda – di “ponte tra l’Est e l’Ovest”. C’è poi una ragione politica, dietro questa decisione: la Fpo, il partito della libertà d’Austria (estrema destra), alleato del cancelliere cristiano-democratico Sebastian Kurz, è legato da “un accordo di cooperazione” (testuale) con Russia Unita di Vladimir Putin. Non bastasse, c’è la dichiarazione della ministra degli Esteri, Karin Kneissl, che ha detto: “Anche se venisse provata la responsabilità di Mosca, l’Austria non cambierebbe atteggiamento”.

Pure la Grecia si è tirata fuori, uno dei pochi Paesi Ue che si è felicitata per la rielezione di Putin, si era associata malvolentieri alle sanzioni del 2014. Il premier Alexis Tsipras periodicamente si fa carico, presso la Commissione europea, di cercare una soluzione di compromesso sulla questione. La Bulgaria non nasconde la sua inquietudine per quest’ultima escalation, la Slovacchia ha soltanto convocato l’ambasciatore russo, il Portogallo si è chiesto se lo strumento delle espulsioni possa essere il più appropriato, “tenuto conto della crisi attuale”. La filologia della diplomazia camuffa il dissenso… quanto a Cipro, ha prevalso il tornaconto: è il posto dove hanno trovato rifugio ed investimenti oligarchi e capitali russi, ma è anche il Paese che ha permesso alla flotta russa di accrescere la propria presenza nel Mediterraneo. E Malta? E il Lussemburgo? Di fronte agli interessi e ai soldi, si finge solidarietà, ma non si attuano le espulsioni perché significherebbe, in realtà, la fine delle relazioni diplomatiche con Mosca

In verità, mai come in questo momento l’Europa è divisa, è a macchia di leopardo. Mentre Trump procede con il protezionismo all’insegna di “prima l’America”, ci si dimentica che la guerra dei dazi è guerra di tutti contro tutti. Una guerra senza feriti. Sul si salvi chi può, quale unità può dimostrare d’avere l’Europa se le divisioni in seno all’Ue, sulle scelte strategiche e le riforme cosiddette “non rinviabili”, sono nette, drastiche? Pensiamo a Macron: nell’agenda francese c’è la creazione di un bilancio dell’Eurozona e di conseguenza, la creazione di un ministero europeo delle Finanze. L’idea piace a Berlino. Ma qualche giorno fa, su Le Monde del 22 marzo, compare l’intervista a Mark Rutte, il premier olandese che espone le sue differenze sul progetto europeo del presidente francese. Fa capire che ci potrebbe essere una via alternativa all’asse franco-tedesco. Rutte è per il libero mercato, ed è contro la gestione a due della Ue: “Merkel e Macron possono incontrarsi quando e dove vogliono, ciò non significa che gli altri Paesi dell’Ue debbano per forza approvare le loro decisioni”.

E’ un siluro anche contro l’ottimismo di Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione europea, che a gennaio aveva sostenuto: “La solidarietà europea finirà per prevalere”. Quale solidarietà, se al suo interno esiste il gruppo dei Paesi di Visegrad (Ungheria, Cechia, Slovacchia e Polonia), una realtà politica euroscettica con cui Bruxelles deve fare i conti. Non solo: Visegrad è diventato il terminale degli interessi geopolitici ed economici della Cina. Che vuole rafforzare la sua presenza nell’Est europeo: non a caso, quest’anno si terrà in Bulgaria il summit “16+1”, tra i quattro di Visegrad, altri dodici paesi dell’Est europeo e la Cina. Che ha già un buon peso in Grecia e punta all’Africa mediterranea e subsahariana. Andando, come si suol dire, in rotta di collisione con gli interessi e le pianificazioni di Bruxelles.

Inoltre, la tanto invocata ed evocata “unità” europea va a cozzare con le disparità regionali, rese più acri dalla crisi: se la convergenza economica dei paesi Ue è palpabile, lo sono drammaticamente ancor di più gli squilibri all’interno degli stessi Paesi membri, capaci di scavare un fossato incolmabile e di provocare sconvolgimenti politici, come quelli del 4 marzo in Italia. Non è un’opinione. E’ il succo di un rapporto consacrato all’Europa condotto dalla Banca Mondiale. E lo dicono anche le cifre di Eurostat che ha analizzato la situazione economica di 231 regioni sulle 275 che compongono l’Ue. Insomma, convergenze nazionali ma a scapito di pesantissime divergenze regionali: uno scacco, per l’Unione Europea.

Morale della favola: l’Europa è come una strada piena di buche, che si cerca di rattoppare alla bell’e meglio. Varando una linea dura contro Mosca, ma non durissima. La più euforica è stata Theresa May, il gas nervino le ha dato l’opportunità di ripigliare quota nell’opinione pubblica. Con ironia, Putin ha ringraziato l’Occidente. Il gioco delle parti continua, come prima. Come sempre.

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