di Claudia Martino*

La Banca mondiale avverte con allarme, nel suo ultimo report pubblicato a marzo, del rapido deterioramento delle condizioni di vita anche in Cisgiordania.

Mentre Gaza già da anni verte sull’orlo del collasso, con tassi di disoccupazione giovanile pari al 58%, il livello di disoccupazione torna a crescere anche nella West Bank, attestandosi al 18% e spingendosi fino al 40% per i giovani.

Tuttavia la disoccupazione non è nemmeno il principale indicatore della crisi imminente: la Banca Mondiale avverte infatti che la situazione appare difficile anche in rapporto ai recenti tagli al bilancio appena operati all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati (Unrwa), le cui risorse sono state dimezzate in conseguenza del calo dei contributi dei tradizionali Stati finanziatori, tra cui gli Usa.

La volontà della nuova amministrazione statunitense di smantellare gradualmente la rete assistenziale a difesa dei rifugiati palestinesi tanto nei territori quanto nei paesi limitrofi – che ospitano la maggioranza dei campi – è, infatti, manifesta ma la Banca mondiale avverte che la crisi dell’Unrwa potrebbe portare al rapido collasso del sistema pubblico e dei servizi di base a Gaza, dal momento che dall’agenzia dipendono circa 275 scuole e 22 cliniche mediche più l’intero comparto assistenziale, che tramite politiche di sostegno al reddito, sussidi e distribuzione di pasti nelle scuole contribuisce alla sopravvivenza di circa l’80% della popolazione della Striscia.

La logica dell’Unrwa, ovvero quella dell’assistenzialismo senza limiti temporali e completamente sganciato da prospettive di sviluppo locale, è stata contestata a più riprese anche dai Paesi europei, ma senza che ad essa siano mai state proposte valide alternative.

Nel già difficile contesto sociale attuale, che vede una parallela decurtazione dei finanziamenti anche all’Autorità nazionale palestinese, smantellare l’Unrwa senza contropartita significa condannare i circa 1.800mila cittadini della Striscia ad una crisi irreversibile e, forse, persino ad una carestia.

Sempre secondo il rapporto della Banca mondiale, la crisi finanziaria in cui versa la West Bank è il prodotto di un combinato disposto di fattori: nel 2017 l’economia in Cisgiordania è cresciuta del solo 2,5%, registrando una flessione anche rispetto al già debole indice di crescita dell’anno precedente: tale tasso è valutato come troppo debole perché la Palestina faccia fronte ai futuri costi della riunificazione nazionale ed al crollo verticale delle donazioni estere.

La ricetta della Banca Mondiale per i Territori rimane sempre la stessa: aprire agli investimenti stranieri e privati per supplire alle mancate donazioni a sostegno delle attività produttive palestinesi e ridurre contemporaneamente la spesa pubblica dell’Anp, soprattutto in materia sanitaria.

L’Autorità nazionale palestinese sta già attuando alcune sensibili riforme, come l’aumento della tassazione e il dimezzamento delle assunzioni pubbliche, per aumentare le risorse statali: tra il 2016 e il 2017, il numero dei dipendenti pubblici a Gaza è infatti sceso di 18.941 unità (mentre quello della Cisgiordania di soli 667) sui circa 156.718 impiegati pubblici complessivi dei Territori, mentre le tasse sono state innalzate dal 22 al 24%, toccando anche settori di consumo di massa come le automobili e il tabacco dove sono fortemente impopolari.

Tuttavia, dopo l’accordo di rinnovata unità nazionale siglato lo scorso ottobre (2017), l’Anp fatica ancora a reperire le risorse necessarie a pagare gli stipendi dei circa 80mila dipendenti pubblici presenti a Gaza che non riscuotono il salario da circa un anno, nonché a raccogliere sufficienti investimenti per compensare il calo delle donazioni estere, che si sono più che dimezzate nell’arco dell’ultimo anno, passando dai 400 milioni di dollari del 2016 ai soli 55 del 2017.

Inoltre, l’Autorità nazionale palestinese è oggetto di pressioni dai tradizionali Paesi finanziatori occidentali, e soprattutto da parte degli Stati Uniti, per attuare costose riforme sociali in cambio di un rinnovato flusso di aiuti: il Taylor Force Act, recentemente varato dal Congresso Usa, impone infatti all’Anp di estinguere il finanziamento annuale alle famiglie dei prigionieri politici palestinesi detenuti in Israele in cambio di un ripristino ai livelli precedenti delle donazioni americane.

Tale scelta non è priva di conseguenze sul piano politico, dal momento che la cancellazione dei fondi ai prigionieri potrebbe causare tensioni tra le due principali istituzioni politiche palestinesi, l’Anp e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina.

In altri termini, ciò che si sta chiedendo all’Anp è di recidere in vincoli con i palestinesi della diaspora attraverso l’accettazione della smantellamento dell’Unrwa e di rinunciare alla resistenza ad Israele attraverso la simbolica cessazione degli aiuti agli oltre 6.200 detenuti politici presenti nelle carceri israeliane, che si considerano “detenuti politici”.

È in questa chiave che va letto il recente tentativo di assassinio del primo ministro palestinese Rami Hamdallah in visita nella Striscia di Gaza: nel rigetto di una parte dell’opinione politica palestinese delle costose riforme sociali imposte all’Anp dai donatori, anche in assenza di percorribili alternative. Il tutto in un momento di transizione in cui la leadership del vecchio Presidente palestinese vacilla e si profila una difficile successione alla “generazione Arafat”.

* Ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali

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