“Esiste un blocco conservatore in Europa spaventato da qualsiasi cambiamento e dalla minima mossa laterale. Soprattutto se questa è compiuta da un Paese fondatore come l’Italia. Il voto italiano è interessante perché mostra una volontà di sovranità. I popoli dicono “malgrado tutto noi esistiamo, e non solo nel disegno che viene preparato per noi”. È una delle lezioni dell’inizio del XXI secolo”. Queste sono parole della grande storica della Russia Hélène Carrère d’Encausse, mamma dello scrittore Emmanuel, che spiegava al Corriere della Sera il senso della quarta rielezione di Vladimir Putin.

Vorrei partire da questa sintesi per rispondere ad alcune delle sollecitazioni, domande ma anche polemiche che ho ricevuto dopo l’uscita del mio libro “Populismo sovrano” per Einaudi (il libro sta andando molto bene, è in ristampa e presto dovrebbe tornare disponibile ovunque, intanto lo potete trovare su Amazon in digitale). Molte delle critiche via social sono arrivate dopo che il senatore a vita Mario Monti ha citato “Populismo sovrano” durante una puntata di Otto e Mezzo di Lilli Gruber, su La7. Monti ha anche letto la frase che con l’Einaudi abbiamo scelto per la copertina: “I populismi si alimentano di un’illusione, che può essere pericolosa: il recupero della sovranità. Ma si tratta di una promessa che non si può mantenere, perché le leve del potere sono, ormai, inesorabilmente altrove”.

E qui vorrei rispondere a un primo tipo di critiche che arrivano di solito via social da persone che non sono andate oltre quella frase. E che, in sintesi, mi contestano questo: “Quindi ci stai dicendo che non c’è alternativa? Che non si può fare nulla?”. Non è affatto questo il senso del libro, anzi. La tesi centrale è che i movimenti populisti rispondono a domande che vengono ignorate dai partiti tradizionali ma offrono risposte poco efficaci. In particolare la promessa di restituire sovranità alle persone – il controllo sulle proprie vite – viene seguita da azioni che in realtà distruggono i pochi strumenti che abbiamo per incidere.

Nel libro considero soprattutto tre strumenti sotto attacco: il  meccanismo della delega nella democrazia rappresentativa, la condivisione di sovranità a livello europeo e la competenza come criterio di scelta delle élite. Lo scetticismo verso questi tre punti ha alla base ragioni molto fondate, ma non sono in grado di mantenere quello che promettono. Basta pensare al caso dei referendum, invocati spesso come strumento principe per conoscere la volontà popolare ma spesso voluti e manipolati – con alterne fortune – da chi invece quella volontà pensa di poter manipolare.

O pensiamo all’uscita dall’euro, la scorciatoia che qualcuno ancora sogna di seguire per recuperare controllo sulla moneta e, per quella via, sul debito. Per quella strada, nel breve periodo ma anche purtroppo nel lungo, si finirebbe per colpire soprattutto la parte più debole della popolazione in nome della quale si vuole distruggere la moneta unica. Giusto un esempio: chi vuole uscire dall’euro per ritrovare democrazia, si trova poi ad ammettere che o si esce in una notte, di nascosto, senza dibattito parlamentare. In alternativa si rischia di produrre tutte le conseguenze nefaste del distacco pur non avendo alcuno dei benefici se il ritorno alla lira è preceduto da un lungo dibattito che permetterebbe ai mercati finanziari di scontare oggi gli effetti di decisioni ancora da prendere. In entrambi i casi uscire dall’euro peggiorerebbe la situazione.  

Un’osservazione più sofisticata che ho ricevuto da un collega è questa: “I populisti sono la causa del problema o il sintomo?”. Spero che nel libro sia abbastanza chiaro che io li considero il sintomo, non la causa. Il loro successo indica che c’era uno spazio di rappresentanza lasciato vuoto dai partiti tradizionali, come sostiene anche il politologo Jan Zielonka nel suo libro Counter Revolution Jan Zielonka, appena uscito. Basta guardare le elezioni italiane: il Pd, ma anche Forza Italia, si sono presentati come i custodi di uno status quo che non piace alla maggioranza relativa dell’elettorato e quindi hanno perso di fronte a chi invece promette cambiamenti. Non si può deridere il reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle, che pure dal punto di vista tecnico ha molti aspetti criticabili, senza prendere sul serio la domanda di protezione che c’è dietro, senza capire che nel Paese c’è un evidente consenso per una riforma profonda del welfare che va oltre gli 80 euro renziani.

Il consenso ai populisti è una reazione alla crisi di idee dei partiti tradizionali. Ma se, come sostengo nel libro, le ricette che i populisti offrono non possono soddisfare le aspettative sollevate, che succede dopo? Quelli del Pd, per stare all’Italia, pensano che gli elettori perduti a favore del Movimento Cinque Stelle dopo aver provato un po’ di governo Di Maio torneranno indietro con le orecchie basse, chiedendo scusa e rimpiangendo i bei tempi andati di Gentiloni, Delrio e Minniti. Non credo che questo succederà mai. E’ assai più probabile che, delusi dal populismo grillino, gli eventuali elettori in fuga si spostino domani sulla Lega e dopodomani su qualche formazione ancora più estrema.

C’è però anche una terza ipotesi – dire “terza via” porta male – che è l’approccio del ministro Carlo Calenda. Dopo la batosta elettorale del Pd, Calenda ha preso la tessera del partito e ha offerto un tipo di leadership alternativo a quello di Matteo Renzi che diceva “l’unica cosa di cui aver paura è la paura”. Calenda prende sul serio le paure – da ministro ha seguito paure molto concrete, dall’Embraco all’Alcoa – ma propone una risposta non populista che parte dall’autocritica dell’establishment: “Il punto non è essere o non essere élite, il punto è proteggere e rappresentare chi non lo è”. Perfino Thomas Hobbes, il grande teorico della sovranità, prevedeva un caso in cui il popolo può rompere il patto con cui ha affidato il potere al Leviatano, cioè allo Stato: quando questi, re o governo che sia, non riesce a compiere la missione che gli è stata affidata, proteggere i sudditi dal ritorno allo stato di natura del tutti contro tutti, dove ogni interesse è legittimo e dunque perseguibile anche con la violenza.

C’è un altro punto di critica – questa proprio infondata – cui voglio rispondere. Su Twitter qualcuno mi cita in maniera polemica l’articolo 1 della Costituzione, che io avrei trascurato, soprattutto nel suo secondo comma che recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ebbene, nel libro c’è un intero capitolo dedicato a quel comma in cui ricostruisco il dibattito all’assemblea costituente. In quella sede, pur preoccupandosi di stabilire con la massima chiarezza possibile che la sovranità rimane nel popolo anche se esercitata con la delega, i costituenti si sono preoccupati di non trasformarla in un feticcio, di non scadere nella perversione della democrazia popolare che è la democrazia plebiscitaria. Per questo non hanno sottoposto la Costituzione a un referendum – dopo quello che aveva visto prevalere la Repubblica sulla monarchia – e stabiliscono con l’articolo 11 che l’Italia, “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

In una bella presentazione a Roma, il professor Germano Dottori mi ha mosso invece una critica che invece è fondata: nel libro non tratto la dimensione del potere, inteso come esercizio della forza più o meno legittima. Non c’è la geopolitica. Vero. Posso solo rispondere con due giustificazioni. Primo: il libro parte dalla prospettiva dell’elettore (italiano) che si muove all’interno della cornice di una democrazia laterale nelle grandi partite geopolitiche che deve quindi considerare esogene. Secondo: come ha dimostrato questa campagna elettorale, la questione dei rapporti con gli Usa e la Russia, l’energia, il nostro ruolo in Medio Oriente sono questioni fondamentali per il Paese ma un po’ meno per gli elettori che hanno votato soprattutto su altro, sulla percezione di sicurezza in termini economici e di rapporto con gli immigrati.

Non pretendo comunque certo di aver scritto un libro definitivo, il mio tentativo era di concentrarmi sulla richiesta di sovranità come tratto unificante di varie forme di populismo e dei comportamenti più populisti delle forze tradizionali.  

Ci sarà tempo e modo di approfondire il resto.

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Pd, l’apertura dell’ex capogruppo Rosato: ‘Utile un referendum tra gli iscritti, anche sull’ipotesi di un governo con M5s’

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