Rileggendo a freddo i risultati elettorali, si scopre quanto un peso rilevante della partita si sia giocato nelle periferie delle grandi città dove ha spopolato il voto del Movimento 5 Stelle e della Lega. Emblematico è il caso di Matteo Salvini che nella periferia di Torino ha superato il 17% e in quella romana dove, raggiungendo la doppia cifra, ha quintuplicato i risultati delle ultime tornate elettorali. Anche per quanto riguarda Milano, nelle mappe utilizzate dagli analisti, il “rosso“ del centro cittadino risulta circondato dal verde della Lega.

Il forte travaso del voto del ceto popolare dalla sinistra operaia verso la destra leghista rappresenta indubbiamente un risultato straordinario rivendicato dal leader del Carroccio. “Sono e resto orgogliosamente populista” ha dichiarato nelle ore immediatamente successive ai dati ufficiali.

L’ha detto e ripetuto il 6 febbraio alle porte del campo rom di via Germagnano a Torino e tre settimane dopo a Tor Bella Monaca, la periferia simbolo della Capitale. Due tappe fondamentali della sua campagna elettorale volta a rappresentare il disagio degli abitanti delle perifierie urbane e a catturare il loro voto. Nell’insediamento torinese vivono da una decina d’anni circa 600 rom tra degrado e fumi che prima ancora di intossicare i residenti, avvelenano i rapporti ormai drammaticamente deteriorati con il quartiere vicino. Tor Bella Monaca, invece, è un agglomerato di palazzi dell’estrema periferia orientale della Capitale, ricordato dalla cronaca solo per eventi criminosi e legati alla marginalità sociale. Due spaccati di periferia che dalla loro nascita vivono la dimenticanza delle istituzioni con i residenti che nutrono la percezione di respirare ossigeno quando qualche leader politico si mostra minimamente interessato alla loro esistenza.

E’ proprio questo il problema degli spazi urbani lontani dal centro: l’abbandono. Un abbandono sentito e percepito ma terribilmente reale, che finisce per ghettizzare e autoghettizzare, per scavare fossati tra uno Stato che cura, sostiene, accompagna e un non Stato dove l’unica legge è quella dell’arrangiarsi vivendo alla giornata. E’ nelle periferie che la politica ha fallito e dove la protesta, incarnata dal voto grillino e leghista, ha monopolizzato il voto.

Tutto ha una sua origine. A partire dagli anni Ottanta, quando nelle metropoli italiane la stretta di mano tra costruttori e amministratori ha consentito la costruzione di un concentrato di quartieri di edilizia residenziale pubblica, dove gettare lo “scarto umano” e lasciarlo lì, senza risposte e vie di uscita. Poi negli anni successivi l’afflusso di famiglie immigrate e la politica dei “campi nomadi” hanno fatto il resto, inaugurando la nascita di ghetti dentro i ghetti e di una nuova povertà, sino ad allora sconosciuta, che non parla solo il linguaggio della privazione economica ma della fine dei rapporti sociali. La città ha relegato nei suoi margini la nuova povertà che al suo interno andava crescendo, nascondendola. Povertà urbana che ha assunto un suo volto che cambia ogni volta il suo aspetto, da Milano a Palermo.

Dal 2008 al 2016 in Italia il numero di persone a rischio di povertà ed esclusione è cresciuto del 4,4%, pari a tre milioni di nostri connazionali. Solo la Grecia ha saputo fare peggio. E le politiche di contrasto si sono rivelate tardive, deboli e inefficaci. Le passeggiate elettorali di Salvini ed i tour in camper di Alessandro Di Battista prima ancora di riempire le piazze hanno riempito un vuoto nell’animo di comunità che non hanno più nulla da perdere, sprofondate nella precarietà economica e nel totale isolamento relazionale, rassegnate in una frustrante guerra tra poveri che strappa spazi di visibilità nelle prime serate di Rete 4 e che ogni volta, davanti a un’urna elettorale, continueranno a mettere la croce su chi meglio saprà rappresentare la propria rabbia inespressa.

E’ da qui che bisognerà ripartire, prima che sia troppo tardi. Per questo, nel periodo del post voto, una trentina di esperti promuoveranno a Roma una Convention sulla povertà urbana che sarà organizzata nel cuore della periferia della Capitale con convegni, dibattiti, gruppi di lavoro. Si proverà a ripartire dalla periferia, per cercare di ascoltare in profondità le domande e di trovare insieme risposte vere, senza passeggiate e slogan.

Mettere i confini al centro. Sarà questa la sfida urgente di chi sarà chiamato ad amministrare il Paese, prima che questo imploda nel tonfo dello scontro sociale. Che il voto di protesta non potrà più contenere, con il rischio di precipitare nelle barricate delle banlieue parigine o nella rabbiosa violenza dei giovani di Molembeek.

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