E’ come giocare una partita a scacchi, solo che questa volta la prima mossa non spetta a loro. Quando sono passate quasi 24 ore dalla chiusura delle urne, i 5 stelle del cappotto al Sud e della mezza vittoria al Nord, quelli della gestione Luigi Di Maio, si fanno vedere in giro con l’aria stanca di tutti, ma pure con il ghigno di chi ha il lusso di poter aspettare di vedere cosa succede. “Non molliamo di un centimetro, stavolta il governo è nostro”, confidano esponenti dei vertici a ilfattoquotidiano.it. Il leader lo ha dichiarato alla stampa: rappresentiamo l’intera nazione, siamo aperti al dialogo. Tradotto: parliamo a tutti, ma a certe condizioni. Ad esempio, il Pd rigorosamente senza Matteo Renzi (e aggiunge qualcuno senza Maria Elena Boschi) che avrebbe potuto essere il primo interlocutore. Niente di più difficile: il segretario ha detto che lascia, ma solo dopo la nascita del governo e assicurandosi che il “suo Pd” non andrà mai con i 5 stelle. Alessandro Di Battista gli ha replicato: “La nostra linea non cambia, il Pd è già senza Renzi“.

Quindi? Non si sa. Altrimenti, ragionano fonti M5s con ilfatto.it, resta l’ipotesi tortuosa del governo di minoranza, cercando maggioranze via via puntando sui temi. Oppure ancora non escludono di dialogare con la Lega Nord, ma, continuano, “a patto che scarichi Silvio Berlusconi (“Non ci sediamo al tavolo con chi non rispetta le regole”) e stando attendi a non farsi mangiare. Perché i 5 stelle si sentono i vincitori indiscussi e questa volta le carte le vogliono distribuire loro. Il punto è uno solo: sono disposti a cedere poltrone ad altri? Su questo già si dividono e intanto rimandano la decisione a dopo che saranno riusciti a eleggere le cariche di Camera e Senato. E’ come il giorno dopo una vittoria: trasudano euforia, si abbracciano continuamente (Di Maio con Grillo, Grillo con Di Battista, e poi Casaleggio) e aspettano. “E’ presto”, è l’ordine che circola. E soprattutto: “Mantenere lucidità”. Chi gongola è lo staff del leader: quegli under 40 che hanno montato un impero di preferenze, usando le dirette Facebook per arrivare a centinaia di migliaia di persone ad ogni botta e riuscendo a rattoppare gli errori della scorsa campagna per le Regionali in Sicilia. Non sono mai stati così uniti e Di Maio, almeno per ora, mai così forte.

Siamo in un altro mondo rispetto al 2013, quando Beppe Grillo, amano raccontare gli stessi 5 stelle, alla vigilia del voto, rallentò la campagna per timore di doversi trovare al governo. Che sia una leggenda o meno, sta di fatto che cinque anni fa tra loro si respirava la paura di abbandonare l’opposizione. Ora è un’altra storia. Di Maio studia da leader da troppo tempo e sa che questa è la sua occasione: ora o mai più, tanto per essere chiari. Il piano che ha elaborato insieme ai collaboratori più stretti (tra loro i ministri designati M5s Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede, ma anche il deputato uscente Danilo Toninelli) è cercare di lavorare con le altre forze in Parlamento dal 23 marzo per arrivare all’elezione dei presidenti di Camera e Senato facendo in modo che il loro contributo sia determinante. “Presenteremo alla luce del sole una rosa di nomi per le presidenze delle Camere. Qualsiasi maggioranza deve passare da noi. E’ finito il metodo degli incontri nelle stanze segrete”, ha detto Toninelli al Tg1. E anche il senatore uscente e rieletto Nicola Morra ha confermato a ilfattoquotidiano.it: “Lavoreremo per scegliere due figure di garanzia. E’ la nostra prima preoccupazione”. E’ un modo per testare le maggioranze in Aula, dare segnali di stabilità e, naturalmente, avere almeno uno dei loro a ricoprire una delle più alte cariche dello Stato. Questa è la prima fase: in base a chi dialogherà con loro e in che termini, in base agli spazi che otterranno, potranno nascere intese anche in vista di un esecutivo. Poi sarà il turno di Sergio Mattarella. Con il Capo dello Stato il leader grillino sente di avere un’intesa diversa rispetto a quando c’era Giorgio Napolitano che, dicono gli M5s, “giocava ad escluderci a qualsiasi costo”. “Aspettiamo con rispetto e grande fiducia”, dicono oggi nei corridoi. E non vuol dire per forza che si aspettano di ricevere per primi l’incarico: prima toccherà probabilmente alla coalizione di centrodestra e poi se fallisce, cosa su cui i 5 stelle puntano molto, toccherà a loro.

Però non vogliono sbilanciarsi, almeno per il momento. I vertici M5s, come confermato a ilfattoquotidiano.it, guardano molto attentamente a quello che succede in casa Pd. Se Matteo Renzi fosse davvero fuori dai giochi (“Un Pd finalmente de-renzizzato”, dicono loro), la partita sarebbe completamente diversa. Cercare un asse con la Lega Nord è considerato da molti troppo compromettente: difficile trovare l’intesa sui temi, difficile unirsi con una forza da cui si cerca di differenziarsi e con cui spesso ci si è trovati a contendersi i voti. Quindi i democratici, preferibilmente (qualcuno dice “obbligatoriamente) senza Maria Elena Boschi, potrebbero essere gli interlocutori preferiti insieme ai pochi di Liberi e uguali che sono riusciti a entrare in Parlamento. Tante le variabili che devono entrare: i fedelissimi del segretario eletti dovrebbero intanto accettare il compromesso, e i 5 stelle, dal canto loro, decidere di concedere qualcosa al nemico Pd. Qui entra in gioco l’occhio severo di Beppe Grillo: acconsentirebbero il garante e una parte degli attivisti della prima ora, di dare poltrone (ministeri o ruoli chiave) a un altro partito? “Noi il governo ce l’abbiamo già e non solo è volutamente tecnico”, spiegano le fonti M5s, “ma ha anche alcune figure vicine alla sinistra”. E’ una carta che però quasi sicuramente non basterà. Gli ortodossi preferiscono la strada del governo di minoranza come in Spagna: andare in Parlamento senza maggioranza e cercarla via via sui temi. “Noi non facciamo scambi di poltrone”, ribadiscono questi ultimi. Sulla carta funziona, ma in Italia sembra una via irrealizzabile. La terza opzione, sicuramente più difficile ma non impossibile, è quella di andare a trovare l’accordo con la Lega Nord. La condizione sicuramente insormontabile è che Matteo Salvini abbandoni Silvio Berlusconi, ma anche che li segua su molti temi. Su questa si scontrano le due vecchie anime M5s: chi guarda con più polemica all’Europa e che non disdegnerebbe l’accordo e chi lo vede come uno snaturamento totale della linea.

E’ il momento in cui vale un po’ tutto e il suo contrario. Sicuramente all’interno del Movimento Di Maio non è mai stato così forte. Ha compattato il gruppo, dopo che naturalmente i dissidenti sono stati allontanati. Circondato dai suoi fedelissimi (tanto per fare qualche nome di chi lo ha seguito per l’Italia in questi mesi: Pietro Dettori, Cristina Belotti, Maria Chiara Ricciuti, Rocco Casalino e Silvia Virgulti) ha fatto esperienza della campagna delle regionali in Sicilia dello scorso autunno ed ha corretto il tiro dove erano stati commessi errori. C’è stata la supervisione di Davide Casaleggio, ma nemmeno troppo: tutti, ora che le cose vanno bene, incoronano Di Maio. La sua campagna elettorale è stata una serie di buone scelte, condite anche dalla fortuna e da una crisi decisiva degli altri partiti. Basta guardare alla famosa rimborsopoli: un gruppo di M5s è finito sui giornali per aver mentito ai cittadini sui rimborsi, ed è finita che la stampa ha raccontato a tutti di quanti soldi i 5 stelle hanno restituito allo Stato. Anche presentare la squadra dei ministri prima del tempo è stato sicuramente efficace. Ma da non dimenticare c’è anche la ritrovata organizzazione e gestione del territorio: i famosi Meetup allo sbando e i comizi confusionari, hanno lasciato lo spazio a una campagna ben strutturata. Da una parte Di Maio in giro nei territori del Nord a iniziative con imprenditori e rappresentanti locali, dall’altra Di Battista con il camper a tamponare l’assenza di Beppe Grillo nelle piazze. “Il risultato è stato il cappotto al Sud, dove abbiamo sbancato, e un ottimo risultato al Nord. Abbiamo retto e fatto buonissimi risultati anche dove il Carroccio ha regnato”, spiegano sempre a ilfatto.it. Non ci sono solo i 28 a 0 nei collegi uninominali in Sicilia o i 24 a 0 in Puglia, ci sono anche la Liguria o l’Emilia Romagna (dove il M5s è primo partito sopra il Pd e a fronte della vittoria sorprendente del centrodestra). Resta il fatto che c’è un gruppo dirigente eletto principalmente al Sud, che entra oggi in Parlamento, e che cambierà tanti equilibri. “Siamo noi che abbiamo capito la questione Meridionale”, spiega Morra. “E questo è uno dei motivi del nostro successo”. Ed è proprio quella questione Meridionale che secondo molti impedirà il dialogo con la Lega Nord. Ma la prima vera mossa deve ancora esserci.

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