Il celebre antropologo Claude Lévi-Strauss spiegava il tabù dell’incesto – la scelta, peculiarmente umana, della riproduzione esclusivamente esogamica – con l’affermazione universale di una strategia adattiva vincente per la nostra specie: scambiandosi reciprocamente le donne, i gruppi umani costruivano alleanze esterne; e questo, per prima cosa, risultava vantaggioso in quanto diminuiva le possibilità di ammazzarsi a vicenda. Sulla linea di questa grande lezione gli antropologi culturali cercano da anni di chiarire che la pratica del mescolamento – tra persone, tra gruppi, tra sistemi culturali – è preferibile in quanto vantaggiosa.

In tal senso una concezione positiva del meticciato costituisce una poetica e una politica capace di diluire il residuo razzista di eredità moderna – discontinuista e essenzializzante, abituata a pensare l’umanità come un mosaico dai confini netti – che seguita ad albergare nei nostri vecchi confini nazionali; e approdare così a una visione postmoderna più fluida dell’umanità, che da un po’ vuole diventare progetto. Il principio è lo stesso: mescolarsi per non ammazzarsi.

Però, sarà perché la storia puntualmente rivela che le ricette per migliorare l’umanità finiscono con l’aprire le porte dell’inferno, bisogna fare attenzione.
Prima di tutto, bisogna fare attenzione affinché le aperture siano reciproche, bilaterali; questo perché non degenerino in atti imperialistici di conquista; presentati magari sotto mentite spoglie, a partire da retoriche della tolleranza all’acqua di rose. Basta osservare cosa succede rispetto all’orizzonte musulmano; dove, emblematicamente, in merito agli scambi matrimoniali, si contempla solo la conversione a senso unico. Il loro.

Qui, più in generale, parlando di meticciato in senso ampio, bisognerebbe fare attenzione a un punto: come accennavo sopra, da un po’ l’Occidente si immagina – nella sua parte progressista e culturalmente egemonica da dopo la seconda guerra mondiale, come reazione proprio a quella catastrofe – come una società liquida, fluida. Tuttavia, tale visione non è molto diffusa in altri luoghi del mondo, dove più frequentemente permangono concezioni cristallizzate, pietrificate dell’identità. Non credo che la metafora della fluidità sia necessariamente sempre meno aggressiva di quella della solidità: le culture si incontrano, si fecondano reciprocamente, si scontrano. Sicché, sempre in senso metaforico, al momento non sappiamo se il fiume avrà la forza di polverizzare queste pietre o se il flusso sarà fermato da una diga d’identitarismi, in cui qualche monoteismo, riletto in chiave fondamentalista e sorretto da un imperialismo della natalità, può giocare un ruolo dominante.

Un altro punto, in questi anni più importante in Occidente, riguarda il rischio di approdare a una concezione assolutistica del meticciato, che da possibilità, da opzione tra le altre, viene elevato a scelta superiore, se non unica; il tutto in una prospettiva finalistica orientata alla costruzione di un’umanità superiore. Sarà che le pulsioni al rovesciamento contrappassistico sono un vizio che non riusciamo a superare, che resta annidato nella parte più selvaggia del subconscio collettivo; ma, purtroppo, sempre di più, l’esaltazione immigrazionistica del meticciato pare assumere sembianze eugenetiche assai vicine a quanto successe in tempi storicamente recenti con l’arianesimo. Certi antirazzisti non si accorgono di quanto razzismo – antioccidentale, antibianco – è insito in questo modo del tutto totalitaristico d’intendere il mescolamento, come imperativo biologico di miglioramento dell’umanità.

Non è un caso che oggi si parli molto del problema della xenofobia (la concezione generalizzante e aprioristica che vede nell’altro unicamente un nemico, un problema, una minaccia) e poco di quello della xenofilia (la concezione generalizzante e aprioristica che vede nell’altro unicamente un amico, una risorsa, una speranza). Non capiamo che la xenofilia è l’opposto della xenofobia, non il suo contrario. Non capiamo che queste due concezioni parzializzanti dell’altro si nutrono costitutivamente l’una dell’altra; che, così come la xenofobia dà forma al razzismo, la xenofilia, soprattutto quando si trasforma in un sentimento radicale, reca in sé il rischio di alimentare l’autorazzismo, che sempre razzismo è. L’altro è, proprio in quanto umano, come noi: sia negativo sia positivo. Eliminare quest’ambivalenza, in un verso o nell’opposto, è sempre un atto di disumanizzazione.

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