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Alzheimer, lo scienziato che ha scoperto l’origine della malattia: “Rinuncia di Pfizer stimolo a fare più ricerca di base”

Il ricercatore Marcello D’Amelio: "L'industria farmaceutica ha collezionato una serie di fallimenti s avendo puntato tutto sull’ipotesi della proteina beta amiloide. Una molecola - sottolinea lo studioso - ritenuta a lungo responsabile della malattia, ma che in realtà secondo nuovi studi potrebbe essere considerata come una delle risposte del tessuto nervoso alla patologia"
Alzheimer, lo scienziato che ha scoperto l’origine della malattia: “Rinuncia di Pfizer stimolo a fare più ricerca di base”
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La decisione della Pfizer di tirare i remi in barca sull’Alzheimer, se si esclude la possibile perdita di posti di lavoro, non è preoccupante. Anzi, può avere aspetti positivi. Dev’essere, infatti, considerata un segnale per le istituzioni, italiane ed europee, affinché abbandonino finalmente ogni alibi e assumano l’impegno d’investire di più sulla ricerca di base, battendo nuove piste”. A parlare è uno scienziato italiano che questa nuova strada ha già iniziato a percorrerla, raccogliendo i primi significativi risultati. Marcello D’Amelio insieme al gruppo di ricerca dell’Università Campus Bio-Medico di Roma e della Fondazione Irccs Santa Lucia nei mesi scorsi ha pubblicato, sulla rivista Nature Communications, uno studio che ha suscitato molto clamore: la scoperta che le origini dell’Alzheimer sono da ricercare in un’area profonda del cervello, collegata ai disturbi dell’umore, la cosiddetta area tegmentale ventrale. Al Fattoquotidiano.it D’Amelio afferma di non essere “per nulla sorpreso” della decisione della casa farmaceutica americana di sospendere gli investimenti su Alzheimer e Parkinson, con il rischio di licenziare 300 lavoratori nei centri di Cambridge e Andover, in Massachusetts, e di Groton, in Connecticut. “Negli ultimi anni – spiega D’Amelio – l’industria farmaceutica ha collezionato una serie di fallimenti sull’Alzheimer, avendo puntato tutto sull’ipotesi della proteina beta amiloide. Una molecola – sottolinea lo studioso – ritenuta a lungo responsabile della malattia, ma che in realtà secondo nuovi studi potrebbe essere considerata come una delle risposte del tessuto nervoso alla patologia”.

L’Alzheimer è una malattia insidiosa, che lavora al buio per molti anni, anche 15-20, prima di manifestare i primi sintomi clinici. Chi ne è colpito, infatti, spesso non lo sa. Le statistiche sulla sua diffusione sono impietose. Basti pensare che solo in Italia, secondo le stime dell’Alzheimer’s disease international (Adi) – la federazione internazionale legata all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che riunisce le associazioni che si occupano della patologia -, colpisce più di mezzo milione di persone oltre i 60 anni di età e ben 47 milioni in tutto il mondo. Una cifra destinata a toccare i 76 milioni di casi entro il 2050, secondo il documento stilato dall’Adi “L’impatto globale della demenza 2013-2050” (qui il documento). Alla luce di questi dati, uno degli interrogativi sollevati dalla decisione della Pfizer è dato dalle sue possibili ripercussioni e dai passi da compiere d’ora in avanti.

Per D’Amelio, “se l’Alzheimer è al momento incurabile, allora vuol dire che noi scienziati non abbiamo ancora capito a fondo la malattia. È, quindi, necessario – aggiunge lo studioso – rimettere al centro la ricerca di base per comprendere i meccanismi molecolari della patologia, anziché potenziare la ricerca farmacologica. E non può farlo l’azienda farmaceutica, che non fa ricerca su meccanismi patogenetici, ma punta a verificare l’efficacia di un prodotto per trarne evidenti vantaggi economici. Ci vorrebbe un grande progetto europeo sulle malattie neurodegenerative, come lo Human Brain Project per lo studio del cervello. Bisognerebbe fare sistema – spiega D’Amelio – e unire gli sforzi per individuare nuovi talloni d’Achille dell’Alzheimer. Il nostro lavoro sui neuroni della regione che regola l’umore, l’area tegmentale ventrale, punta in questa direzione. In questi mesi stiamo studiando a fondo quest’area. Posso solo anticipare al momento – chiarisce D’Amelio – che, sulla base delle ricerche che abbiamo già condotto, questa regione cerebrale sembra sia coinvolta in una fase precocissima dell’Alzheimer. È possibile, quindi, immaginare – conclude lo scienziato – che le strategie terapeutiche future, non solo contro l’Alzheimer ma anche contro il Parkinson, possano concentrarsi non più unicamente sulla proteina beta amiloide, com’è stato fatto finora, ma su un altro obiettivo comune. Quello d’individuare nuovi meccanismi che portano alla morte delle aree cerebrali considerate dagli ultimi studi particolarmente suscettibili alla degenerazione”.

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