“Arciere” era il braccio destro del capitano “Ultimo”. Un vicebrigadiere della Crimor, squadra del Ros che il 15 gennaio 1993 aveva catturato Totò Riina. Quindici anni dopo, però, alcuni colleghi lo arrestano e nel 2014 viene condannato a sedici mesi di carcere per falso ideologico in atto pubblico commesso per aiutare dei ladri di oggetti d’arte. Lunedì 4 dicembre la Corte d’appello di Torino lo ha assolto da quell’accusa perché il fatto non sussiste. “È stata dura”, commenta l’ex maresciallo capo dei carabinieri Riccardo Ravera allontanandosi dal Palazzo di giustizia insieme ai suoi avvocati, Fabrizio Siggia e Francesco Romito.

La sua caduta è stata quasi dieci anni fa quando, diventato un investigatore del Nucleo “Tutela patrimonio culturale” dei carabinieri, conduce un’inchiesta su un furto di mobili antichi e di pregio dalla Palazzina di caccia di Stupinigi (la residenza estiva dei Savoia) avvenuto tra il 18 e il 19 febbraio 2004. Ravera era riuscito, grazie alle sue fonti confidenziali, a far ritrovare quel bottino da diversi milioni di euro nelle campagne di Stupinigi il 25 novembre 2005. L’inchiesta, però, non era finita e la procura ha dato la caccia agli autori del colpo. Nel 2007 una banda di sinti di Saluzzo viene arrestata per diverse razzie commesse nelle chiese e alla Palazzina di Stupinigi. Tra di loro c’è Adriano Decolombi, capo dei sinti di Saluzzo e confidente di Ravera. Il quadro che emerge dall’inchiesta è diverso: Ravera avrebbe scritto nelle relazioni di servizio di aver saputo da una fonte confidenziale che i mobili erano in partenza per dei Paesi arabi e che fosse necessario velocizzare il recupero. Gestisce così i contatti con gli informatori e media il riscatto da 250mila euro che la Fondazione dell’Ordine Mauriziano, discendente dell’ordine cavalleresco e religioso e proprietaria della magione. Per la procura quell’operazione era un’estorsione fatta dai responsabili del furto, Adriano, Claudio e Daniele Decolombi insieme a Renato Di Maio, con l’aiuto di “Arciere” e di un soprintendente della polizia stradale Giuseppe Cavuoti.

All’inizio del marzo 2008, quando emerge l’esistenza dell’inchiesta, Ravera rinuncia alla medaglia ai benemeriti dell’arte e della cultura consegnata dall’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Passa poco tempo e la situazione peggiora. Il 17 marzo 2008 viene eseguita un’ordinanza di custodia cautelare contro di lui, Cavuoti e Di Maio: il maresciallo Ravera finisce ai domiciliari per l’accusa di favoreggiamento e falso, stesse accuse per il poliziotto, che finisce in carcere come anche il sinti Di Maio. Per i pm il maresciallo e il soprintendente avevano aiutato “gli autori del furto e comunque i detentori dei beni sottratti a eludere le investigazioni assicurando loro l’impunità” e avevano omesso “di svolgere qualsivoglia attività di indagine”. Anzi, Ravera avrebbe anche dato informazioni fuorvianti ad alcuni suoi colleghi impegnati nell’inchiesta.

Rinviato a giudizio nel 2011, il sostituto procuratore Andrea Padalino chiede il “non luogo a procedere” per la prescrizione del reato di favoreggiamento e poi chiede l’assoluzione dall’accusa di falso ideologico. Il giudice è di un’altra opinione e condanna “Arciere” a sedici mesi di carcere: secondo lui quanto affermato nella relazione, il particolare dei mobili pronti per essere esportati oltre il Mediterraneo, era un falso scritto per giungere al riscatto. A quella versione credeva anche il sostituto procuratore generale Giancarlo Avenati Bassi che il 24 ottobre ha chiesto la conferma della condanna. I difensori Fabrizio Siggia e Francesco Romito, invece, hanno chiesto di ascoltare di nuovo Adriano Decolombi perché voleva chiarire una circostanza: era stato lui a dire a Ravera che i mobili sarebbero stati venduti nei Paesi arabi, non c’era nessun falso da parte del carabiniere. Ai giudici è bastato e hanno assolto “Arciere”: “Questa sentenza ripaga da nove anni di sofferenze e ridà dignità a un uomo”, dichiara l’avvocato Siggia.

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