La trattativa tra governo e sindacati sull’aumento dell’età pensionabile e altre particolarità del sistema pensionistico non è la prima né sarà l’ultima di una interminabile serie di diatribe su interventi grandi e piccoli sulla previdenza/assistenza che si susseguono ormai da anni a distanza letteralmente di mesi, senza che si venga mai a capo di una eventuale riforma che non richieda almeno ulteriori ritocchi nel medio termine.

Solo per ricapitolare, abbiamo avuto:

1992 Riforma Amato
1995 Riforma Dini
1997 Riforma Prodi
2001 Riforma Berlusconi
2004 Riforma Maroni
2007 Riforma Damiano
2011 Riforma Fornero

Sette riforme in 25 anni, più vari ritocchi minori qua e là, una ogni poco più di tre anni in media e non è ancora finita.

Ci sarebbe da pensare che siamo governati da incapaci che si succedono al potere da diverse parti politiche e che, tra altro, adottano talvolta una sorta di spoiling system legislativo in base al quale quello che ha fatto la parte avversa deve essere per definizione cancellato. Scaloni, poi scalini, divieto di cumulo, poi cumulo lecito, pilastri integrativi puramente previdenziali, contributi di solidarietà, invece, completamente assistenziali, finestre fisse, poi mobili, poi interventi con preavviso di meno di trenta giorni, per cui a un nato il 1° gennaio 2012 fu detto nel dicembre 2011 che la sua data di pensione slittava di quattro anni, in disprezzo a qualsiasi forma di programmazione della propria anzianità e della propria vita.

Escludendo che tutti i riformatori del sistema pensionistico abbiano agito per incapacità, malafede, per interessi di parte, per motivi elettorali o presi dal panico per motivi finanziari non sempre sostanziati – anche se, a mio avviso, alcuni siano arruolabili in una o più di queste compagini -, deve esserci un motivo di base nel sistema che impedisce la riforma una volta per tutte e con criteri se non condivisibili da tutti – se mi tocchi personalmente, per definizione, squalifico l’intervento come sbagliato – almeno logicamente ispirati a un unico fondamento che, possibilmente, dovrebbe trovare riscontro nelle regole nelle quali la società si riconosce e nella Costituzione che dovrebbe esserne la rappresentazione giuridica.

E infatti: “c’è del marcio in Danimarca”.

Ci sono due tare fondamentali che impediscono di mettere mano al sistema pensionistico in modo definitivo, anche sopportando un po’ di ricorso alla piazza e la perdita di consenso elettorale.

La prima è il mantenimento – non colposo, ma intenzionale – della commistione tra previdenza e assistenza. Ancorché per l’Inps le due cose siano contabilmente ben separate, la vera commistione è ideologica: nel sentire comune – e niente viene fatto per cambiarlo – i comparti previdenza e assistenza sono permeabili e risorse possono essere spostate dall’uno all’altro quando invece la previdenza dovrebbe essere vista come la restituzione di un accantonamento (diritto individuale) e l’assistenza come la risposta a un bisogno sociale (diritto collettivo). Questa commistione impedisce sia gli interventi – facili – sulla previdenza allo scopo di commisurare in modo effettivo la prestazione con i contributi versati, sia quelli – più difficili perché costosi – sull’assistenza, allo scopo di garantire la sussistenza di tutti gli anziani.

La seconda tara è l’applicare ai cittadini pensionati, in materia di socialità, regole diverse dal quelle che si applicano agli altri cittadini. La nostra Costituzione prevede che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Come si vede, non v’è traccia di contributi diversificati se non in base al reddito percepito; diversamente è ormai prassi consolidata applicare alle (sole) pensioni meccanismi addizionali di re-distribuzione del reddito che si sommano alla progressività fiscale esercitata su tutti i cittadini e che si articolano in modi diretti – contributi di solidarietà – o più subdoli e a effetto permanente – blocchi della perequazione.

Queste due gravi distorsioni di pensiero prevengono la possibilità di riformare l’assistenza identificando in modo certo la dimensione dei diritti costituzionali per i cittadini sprovvisti dei mezzi necessari “al mantenimento e all’assistenza sociale” – Art. 38 -, coniugandola con il “ dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” – Art. 4 – e quella di riformare la previdenza riconoscendone una buona volta le caratteristiche assicurative – tanto versi, tanto avrai; tanto più avrai mensilmente per quanto meno tempo lo riceverai – di un accantonamento da ritenersi sacro e inviolabile e non soggetto ad altre fiscalità che non quelle universalmente riconosciute valide per tutti i cittadini.

Il tutto è complicato dall’inevitabile sistema a ripartizione che fa sì che i contributi dei lavoratori scompaiano in tempo reale nella voragine dei conti dello Stato e che gli attivi siano convinti a pensare di stare pagando le pensioni degli anziani, tra l’altro ritenendo che questo sia iniziato solo in tempi recenti quando, viceversa, lo schema si replica generazione dopo generazione da sempre.

Pertanto, ciclicamente, ci troviamo a discutere di riforme e riformine, di piccoli e grandi interventi che non sono di per sé né giusti né sbagliati, ma semplicemente fuori luogo perché toppe applicate a un pasticcio di base, in un panorama complessivo di totale assenza di chiarezza sui criteri fondanti; le toppe raramente creano un patchwork artistico, quasi sempre tamponano un problema e, se sovrapposte, aggiungono bruttura a bruttura.

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