di Helena Sabaté Tomàs*

Pim-pim-pim-pim-pim-pim-pim… Sono le dieci di sera. Alcuni dei vicini escono sul balcone. Casseruola e mestolo in mano, picchiano forte per protestare contro il divieto dello Stato spagnolo di fare il referendum. Allo stesso tempo, un altro vicino si lamenta su Facebook perché il rumore gli sveglia il bambino che è appena andato a letto.

Le bandiere si moltiplicano sulle finestre mentre aumenta la tensione tra il governo catalano e quello spagnolo. Sono bandiere indipendentiste, spagnole, catalane e altre di diversi colori con scritto un , che mostrano chiaramente la scelta del voto. I cittadini sono divisi: partigiani del Sì, del No, del dialogo, della stanchezza, di quelli che vogliono ripartire per tornare da dove sono arrivati e quelli che “cambiamo argomento, per favore” o “non vado sui social perché tutti quanti parlano della stessa cosa”.

Era da tanto tempo che i nazionalisti spagnoli non si mobilitavano tanto come in Catalogna. Come siamo arrivati a questo punto? Alcuni si dispiacciono, altri rovinano la parola dialogo pronunciandola continuamente, altri ancora vogliono mandare “Puigdemont in galera”. Allo stesso tempo, due milioni e mezzo di persone hanno votato al referendum, alcuni con gli occhi lucidi dall’emozione e altri mentre hanno subito la repressione della polizia nazionale, e si sono aggrappati alle urne con forza per proteggere gli scrutini (avevano dormito nei seggi per potere garantire il voto). La violenza ha fatto breccia nella stampa internazionale, anche se l’indipendentismo non è una novità.

Quello che succede adesso non è un caso. Il 30 settembre 2005 è stato approvato un nuovo Statuto di autonomia della Catalogna, testo che è stato modificato in Parlamento, dove deputati e senatori lo hanno approvato. Alla fine si è trasformato in un referendum per il popolo catalano. La risposta non si è fatta attendere: il Partido Popular, il Defensor del Pueblo e cinque comunità autonome hanno presentato ricorso contro “la sua incostituzionalità”. E ricordiamo che i membri del tribunale che garantisce la costituzionalità della legge li propongono il governo e i parlamenti.

Il punto di non ritorno è stata la sentenza sullo Statuto. Nel 2010, il tribunale costituzionale ha annullato 14 articoli del testo e dichiarato senza alcun effetto giuridico il termine “Nazione”, che compare nel preambolo della legge. Questo ha segnato un prima e un dopo. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza il 9 luglio 2010 per protestare contro un taglio che percepivano come un’amputazione del testo che avevano votato al referendum. Una decisione che ha trasformato molte persone in indipendentisti. I toni si sono fatti sempre più accesi a mano a mano che si introducevano politiche di austerità a Madrid e a Barcellona. Il Partito popular ha dato il via libera a riforme impopolari allineate col discorso anti-indipendentista per guadagnare consenso in tutta la Spagna, accusando i catalani di essere separatisti e non solidali.

Parallelamente, mentre a Madrid non si ascoltava la richiesta catalana di maggiore indipendenza economica e politica, venivano censurate le petizioni e i tentativi di chiedere una consultazione pubblica per l’indipendenza. Per questo, le ultime elezioni del Parlamento catalano sono state considerate un plebiscito: una parte degli elettori voleva garanzie per votare subito, per fare questo referendum. Ed è dove siamo arrivati oggi.

Da domenica 1 ottobre non si sente più il pim-pim-pim-pim alle dieci di sera. Era tornato il silenzio in attesa del discorso del presidente Puigdemont in Parlamento. L’indipendenza è stata molto breve. Votare di nuovo sarebbe un modo per sanare la frattura. Un referendum con garanzie in Catalogna risolverebbe il labirinto in cui ci troviamo oggi. La soluzione arriverà attraverso due strade: negoziazione e urne.

* giornalista e politologa catalana

(Traduzione di Eleonora Bianchini)

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