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Il nord dell’Iraq è una delle zone logisticamente più semplici per i giornalisti. In un certo senso, non è neppure Iraq: è autonomo da trent’anni, ormai, dalla prima guerra del Golfo, più o meno, perché è abitato dai curdi. Ha un suo governo, un suo parlamento. Una sua bandiera. E i curdi sono molto organizzati. Si tratti di incontrare dei profughi o il presidente, o di andare al fronte, sai sempre a chi telefonare. E in due minuti è tutto pronto. Ma se decidi di startene un momento per conto tuo, qui, diventa complicato anche solo trovare un’aspirina.

Giri a vuoto per ore.

Un po’ come Erbil, che fa da capitale, anche Dohuk è una città sostanzialmente senza un centro. Una città che si è allargata a dismisura, in questi ultimi anni, e senza alcuna pianificazione, senza alcuna logica, alcuno spazio pubblico, con questi edifici anonimi, dai colori sbiaditi, inespressivi: e all’interno, indipendentemente dall’apparenza, tutti scalcinati. Perché al fondo, qui è tutto allo sfascio. L’acqua, l’elettricità. Le strade. Lontano dall’hotel frequentato dai giornalisti, lontano dagli uffici delle ong e delle agenzie dell’Onu, ti ritrovi in queste topaie in cui magari c’è il televisore al plasma, sì: ma poi non c’è una presa che funzioni, un rubinetto che non ti resti in mano, una finestra che si chiuda, non c’è un tubo che non perda, un ascensore che non si blocchi. Non c’è un muro che non sia sbrecciato.

Un pavimento che non sia sconnesso.

Un palo che a guardarlo bene, non sia sbilenco.

Dohuk è la città più vicina alla Siria – o più esattamente, alla Siria dell’est, quella controllata dall’Isis: quella della battaglia di Raqqa. E quindi, quando sei stanco del fronte, vieni un po’ qui. A ricaricarti, in teoria. Ma non c’è un cinema, non c’è un parco. Una libreria. Niente. Una strada in cui camminare tranquilli. L’unica cosa che non manca, qui, è l’attrezzatura militare. C’è di tutto, in mezzo a negozi di fiori, e stoffe e spezie: anfibi per ogni tipo di terreno, guanti per ogni tipo di fucile, elmetti, binocoli, coltelli, parastinchi, paraorecchie per cecchini, giberne da kalashnikov, fondine da pistola, fondine da pugnale, maglie, magliette, maglioni sottomaglie mimetiche, torce a infrarossi – e mi si avvicinano tutti, arrivano con un tè, un biscotto: perché pensano che sia una degli europei che sono qui a combattere contro i jihadisti. Sono un po’ delusi quando dico che no: scrivo e basta. Poi però hanno mille domande. Su ogni guerra, ogni battaglia. Solo che non mi chiedono mai chi combatteva contro chi, e perché, e come è finita, se è finita: mi chiedono delle armi, delle tattiche. Di aerei e carrarmati. Nient’altro.

Vendono anche mimetiche da bambino, qui.

Sì, so che il Kurdistan è così da sempre. Perché è in guerra da sempre, e alla fine, è inevitabile che sia coinvolta tutta la società. Che siano tutti in trincea. In fondo, era ieri quando i curdi venivano sterminati da Saddam con i gas: e ora hanno i jihadisti in casa. Però… Non so. Sono cose che non scriviamo più, tanto sono normali. Cose che non notiamo più: parte anche noi, ormai, di tutto questo, anche noi giornalisti, con i nostri elmetti e parastinchi. Ma è il problema vero del Medio Oriente, alla fine, il problema principale: perché qui sono tutti capaci di sparare, sono tutti esperti e addestrati, saprebbero tutti illuminare il nemico con i sensori termici: ma non illuminare una strada con dei lampioni.

L’Iraq è uno dei paesi in cui l’Occidente ha riversato più risorse. Miliardi e miliardi di dollari: ma tutto è stato investito in armi. In armi, in armi.

Il problema vero è che la guerra, qui, è un mestiere.

Non è più né attacco né difesa: è semplicemente quello che si fa per campare.

Sbircio Facebook, e gli amici sono tutti in giro, adesso che è agosto. Questa settimana sono tutti in Irpinia al festival di Capossela: che è una cosa come è Capossela, una cosa difficile da descrivere, tutta di poesia, tutta di mondo rovesciato al contrario: senza orologio, una settimana di sciopero dal tempo del lavoro, dell’utile, dell’accumulo: da tutto quello che è normale, e però normale non perché sia sensato, in realtà, ma solo perché ci siamo abituati, e – e noi invece siamo qui. Me compresa. Perché poi quand’è che ho perso tutto questo tempo a imparare a montare un visore notturno? A scegliere il giubbotto antiproiettile in base al calibro dei colpi più probabili? Come sono finita qui vestita tutta di nero come una testa di cuoio? Mi guardo in uno specchio, mentre provo un passamontagna per le tempeste di sabbia: per questa guerra che è mille guerre, ormai, e puoi sceglierti quella che preferisci, quale vuoi raccontare? quella contro i jihadisti? quella contro Assad? quella contro gli arabi o quella contro i curdi? o forse quella tra i curdi? La guerra della Russia, la guerra degli Stati Uniti, la guerra della Turchia? O magari la guerra dell’Iran? Con chi vuoi stare, al fronte?, perché c’è tutto il mondo, qui: ci sono anche gli anarchici, ci sono anche i folkabbestia che combattono per il socialismo, e si sono portati la bandiera di Cuba: ci sono tutti tranne i siriani, e – e la verità è che mi sento un’idiota.

Un’idiota e basta.

Poi so che domani, al fronte, dimenticherò subito tutto questo, e tornerò subito nel tempo del lavoro: a scrivere diligente della battaglia. Di armi, di tattiche. Di aerei e carrarmati.

Ma quanto spreco di vita.

E’ l’unica cosa che dovrei scrivere, in realtà.

Quanto spreco di vita.

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