Ho fatto un gioco. Ho letto Avanti, il libro appena uscito e anticipatissimo di Matteo Renzi, sulla spiaggia, facendo finta che fosse effettivamente una lettura da ombrellone. Un gioco difficile, visto che la mia frequentazione professionale dell’autore ormai dura da un’eternità. Il gioco, però, continua: e ora, scrivendone, decido di lasciar perdere il fact-checking, l’analisi della svolta sull’immigrazione o delle pagine dedicate a Consip, alle banche, al Fiscal compact. Mi piglio una licenza poetica. E tanto per fare una cosa nuova, mi dedico agli “Avanzi” di “Avanti”. Quello che resta, magari quello che non c’è. Non ci sono, in effetti, un sacco di cose.

Sto deviando verso l’analisi politica, ma va detto: i nemici di cui Renzi fa nome e cognome sono sempre gli stessi, sono i soliti noti. Cioè, non è che Matteo, al netto di qualche commento non esattamente beneducato (tipo “il broncio” di Letta), ne indica di nuovi. Quanti sono i nemici giurati che non menziona? Secondo me, almeno decine. Proprio questo uno dei segni distintivi del libro. Fotografa lo stato dell’arte, scandaglia solo le cose che già si sanno, si lascia aperte quasi tutte le strade, ogni tanto dissemina qualche velata minaccia o qualche indizio. Ma nulla di più. “Siamo nel già e nel non ancora dell’innovazione politica italiana”, scrive l’ex premier nelle prime pagine. Si potrebbe chiamare disfacimento del sistema, salto nel buio, ritorno al passato, transizione. Lui ovviamente sceglie la parola “innovazione”. Ma in quel “già” e “non ancora” c’è insieme il riconoscimento di uno stallo, la speranza che il guado lo porti da qualche parte, il tentativo di leggere la propria esperienza come un contributo alle magnifiche sorti progressive dell’umanità e non come un fallimento.

In fondo, è il libro del “già” e del “non ancora”: dal punto di vista personale e politico. Dal punto di vista dell’enorme potere avuto e poi perso, del consenso ottenuto e disperso. Dove il passato è finito, ma è anche un passato che non passa e il futuro è un’ipotesi. E in quell’affermazione, c’è pure il tentativo di un lancio editoriale, anche per necessità (il contratto con la Feltrinelli). E di un rilancio politico: perché Renzi non sa stare o non può stare lontano dalla scena. Ci prova, ogni tanto. Ma con una fatica enorme.

Momenti che bruciano, quelli del referendum: “Ho senz’altro sbagliato in molti passaggi della campagna. Ma paradossalmente, la personalizzazione non mi sembra l’errore più grave, anzi. La personalizzazione incentrata su di me non nasce dal sottoscritto, ma dagli avversari”. Interessante. Al netto delle scelte altrui, sembra quasi riconoscere: ‘Io sono fatto così, e basta’. D’altra parte, la personalizzazione (che poi si può tradurre con “eccesso”, “iper presenza”, “o con me o contro di me”, e via di questo passo) è stata sempre la cifra politica di Renzi. Scrive poco dopo: “Il mio vero errore è stato non leggere in tempo la politicizzazione del referendum”. Ancora più interessante. Secondo me, Renzi l’aveva capita perfettamente, checchè ne dica, tanto che aveva cercato di usarla a suo vantaggio. Quello che non aveva capito “tra la primavera e l’estate del 2016” era il tasso di anti renzismo dominante. Pure se parziale (fa troppo male dirla tutta?), un’ammissione. L’insieme delle due notazioni lascia un interrogativo aperto: Renzi continuerà ad alternare momenti di silenzio più o meno imposto (o auto imposto) a momenti di overdose comunicativa? Oppure a un certo punto deciderà che preferisce esserci sempre, rischi annessi e connessi?

Mi sto già distaccando dalla lettura da spiaggia, vero? Lo so. Allora, provo a cambiare prospettiva. Nel libro, ci sono le donne che fanno da protagoniste: la Merkel, Agnese, soprattutto. Presenze forti, inossidabili, imprescindibili, indistruttibili, a tratti castranti. Tipo, sarebbe la moglie che critica l’uso dell’aereo di stato per andare a sciare. Modello super io. Arriva anche la figlia Ester, personaggio quasi inedito. E che già si vuole più tosto del padre. Ecco il racconto di quando accoglie Orfini a Pontassieve dopo il 4 dicembre, dicendo: “Un momento, babbo. Ma siamo sicuri che Orfini abbia votato sì al referendum? Altrimenti non gli apro”. Scrive il segretario Pd: “Orfini entra solo perché si giustifica con Ester che la sua amicizia con D’Alema appartiene al passato”. E poi riporta una frase dell’altro Matteo: “Ma se candidassimo lei anziché te?”. Evito di evocare la locuzione “costruzione di una dinastia”, che se no i paragoni con altri protagonisti della politica italiana diventano troppo scontati. Ma qui c’è un’altra domanda: e la madre? Di lei, personaggio dominante e centrale, Renzi non parla mai. A proposito di rimozioni dovute, volute o quasi inconsapevoli. Parla invece di un fratello, Emanuele, un altro finora ignoto. E scopriamo che fa l’oncologo pediatrico in Canada. Troppo serio per entrare nella narrazione quotidiana di Matteo? Sorvolo pure sul padre Tiziano, perché per parlarne servirebbe un libro, e non un blog.

Infine, sempre per stare sulla lettura tipo romanzo, ecco la “lezione” del figlio Francesco, che dopo una partita di pallone cruciale nella quale è rimasto in panchina al padre che lo invita a fermarsi per un anno e poi a cambiare squadra risponde: “Io non mollerò mai. Piuttosto finisco il campionato in panchina, ma non lascio questa maglia”. A proposito di programmi politici ed esistenziali.

Avanti, nonostante tutto. Anche se si trattasse di “Avanzi”. Anche se la direzione non è chiara e l’amarezza è dietro l’angolo. Come lettura da spiaggia, un po’ malinconica.

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