Un suicidio, poi un gioco finito male, infine un incidente nel tentativo di fuggire a uno stupro: sulla morte di Martina Rossi, la studentessa ligure precipitata da una camera d’albergo a Palma di Maiorca il 3 agosto 2011, non si è ancora fatta chiarezza. Domani ad Arezzo si aprirà il processo per due aretini che si trovavano con lei quella sera: Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, entrambi di 28 anni. Secondo il procuratore Roberto Rossi, che ha chiesto il rinvio a giudizio, i due ragazzi quella sera avevano provato a violentarla e Martina, cercando di fuggire dai due, avrebbe scavalcato la ringhiera del balcone per rifugiarsi nella camera adiacente: sarebbe però scivolata su degli asciugamani bagnati, precipitando nel vuoto per sei metri. Albertoni e Vanneschi dovranno rispondere di morte come conseguenza di altro reato e tentata violenza.

Nell’estate del 2011 Martina si trovava in vacanza alle Baleari insieme alle amiche: avevano fatto la conoscenza di un gruppo di ragazzi di Arezzo, passando la sera con loro all’Hotel Santa Ana. Le amiche si appartarono in una stanza al primo piano insieme a due aretini, Federico Basetti ed Enrico D’Antonio. Martina salì nella camera 609 con Albertoni e Vanneschi: poi il volo di sei metri dal balcone, in circostanze mai chiarite. La polizia spagnola aveva liquidato in fretta e furia la morte della ragazza di 20 anni come un episodio di “balconing“, un gioco nato proprio negli alberghi di Palma di Maiorca, che consisteva nel saltare da un balcone all’altro (o addirittura tuffarsi in piscina dalla propria finestra) filmati dagli amici, spesso sotto l’effetto di alcol e droghe. Ma i genitori della vittima hanno insistito affinché le indagini fossero portate avanti, supportati anche da una perizia che aveva dimostrato come i segni sul corpo non fossero compatibili con una caduta volontaria.

I due aretini hanno sempre parlato di suicidio. Ma nel 2012 furono piazzate delle telecamere nascoste nella sala d’attesa dove i due ragazzi aspettavano di essere ascoltati in qualità di testimoni. I microfoni registrarono una conversazione in cui si menzionavano “segni di violenza sessuale”, di cui gli inquirenti però non avevano mai parlato con loro.

 

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