Quello che mi stupisce tanto dei giovani in politica è la bramosia di potere/successo/benessere economico per ‘ragazzi’ della mia età e anche più giovani. Gente di 35 anni che chiede al capo di una banca di comprarsi la banca del babbo, stando a quanto racconta Ferruccio de Bortoli nel suo libro in uscita. E mi vengono in mente le parole dello scrittore Vincenzo Guerrazzi: “Rimbaud a 15 anni scriveva poesie in latino; io a 15 anni scrivevo sulle pareti del cesso della mia scuola”. Questi giovani al potere (Macron ha solo 39 anni, Renzi 42) dovrebbero spiegarci come si fa, qual è il segreto del loro successo. Come si fa in 3 anni a diventare ministro e poi presidente della Repubblica. O come si fa, da sindaco di Firenze, a diventare presidente del Consiglio. Non sono polemico: vorrei proprio capire.

Si sostiene: l’audacia dovuta alla giovane età, questo non guardare in faccia a nessuno, lo sguardo dritto nel futuro. Ma i giovani, sia i coetanei di Renzi e miei che quelli più piccoli, hanno ampiamente bocciato la riforma costituzionale al referendum del 4 dicembre. Dice: il carisma nell’epoca della fine della politica e nell’era della personalizzazione massima.

Non mi sembra un’interpretazione che coglie il punto. Di quale carisma si parla, dove è stato espresso? Davanti a quali folle? Macron ha il carisma di un pesce bollito, Renzi ripete vuote formulette con cadenze ossessive e, come dice Marco Damilano, se aveva iniziato proponendosi come “il nuovo” ora è solo “il di nuovo”. Qui piuttosto il punto riguarda – al di là dei retroscena che pure dicono molto, moltissimo, quasi tutto – la selezione postmoderna di leader che assicurino, come spiegava già decenni fa una certa scienza politica neo-elitista, la continuità di scelte fatte altrove. La politica è sempre stata anche un po’ questo, per l’appunto, ma ora assistiamo alla fungibilità dei leader. Fungibili, sostituibili, intercambiabili, che durano il tempo della vita di una farfalla. E allora la personalizzazione è un dispositivo immunitario della politica stessa, un modo per sopperire all’assenza di progettualità e alla incapacità di produrre egemonia e consenso. Il segno di un’infezione, di un’alterazione della fisiologia: non produrre futuro significa anche non produrre formazione politica e continuità della leadership.

In fondo, è la realizzazione con altri mezzi di un leninismo postmoderno: perfino una massaia… Ambiziosi, cresciuti nell’era in cui l’apprendistato e la formazione in ogni campo si bypassano con un webinar, e sono per tutto ciò utili: Manchurian candidates che non hanno neanche bisogno del chip nel cervello.

Non c’è da essere complottisti, si tratta di applicare alla classica spiegazione della riproduzione per mitosi delle classi dirigenti gli schemi di un mondo liquido. E in effetti anche i tentativi di ribaltare questi modelli attraverso una messa in discussione del paradigma moderno della rappresentanza, ormai svuotata di senso, hanno poi bisogno di far ricorso al paradigma immunitario tanto quanto Rousseau aveva bisogno, nonostante la volontà generale, del Legislatore (Grillo che investe Di Maio, per intenderci, non andando lontano da una selezione chiusa e autoreferenziale della classe dirigente che tanto si vuole criticare).

Così i giovani che si avvicinano alla politica hanno introiettato il trasformismo perché sanno che nessuno dura, e dunque c’è da fare giravolte per rimanere a galla.

Ed è quasi surreale leggere le righe di Massimo Recalcati che introducono la scuola “Pier Paolo Pasolini” (sic) del Pd: “In un tempo dominato dall’idolatria del presente tutto pare schiacciato sulla dimensione acefala dell’attualità. Viene meno lo sforzo del pensiero critico e la sua necessità di tempi lunghi. […]. Si tratta di ridare alla politica il suo necessario respiro culturale, di coltivare lo sguardo storico-genealogico”.

Quanto il ‘pensiero critico’ e lo ‘sguardo storico-genealogico’ si sposino con l’app che premia i più zelanti turiferari del leader coi punti (come le carte fedeltà), è tutto ancora da capire. Forse è roba da giovani.

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