Sara:  “A 35 troppo vecchia per i bandi, ho due lauree e non posso aprire neanche un negozio”
“All’estero? No, è un passo troppo grande, poi ho 35 anni, sono troppo vecchia”. Sara scuote la testa. Vive a Palermo ed è una psicologa: tra laurea triennale e magistrale, analisi personale, seminari, workshop, tirocini e un master in mediazione familiare – 3500 euro ma nessuno sbocco garantito – ha studiato abbastanza. Inutilmente, dice ora, visto che “lavorare al Tribunale di Palermo è impossibile e per la libera professione dovrei studiare ancora”. Nel mondo del lavoro, per la verità, ci è arrivata presto: insegnava in una scuola privata che si occupava di formazione scolastica e universitaria: 8-12 euro l’ora, “non avevo nessun contratto, ma almeno portavo a casa dalle 800 alle 1200 euro”. Poi qualcosa cambia, la precarietà non evolve in nessuna assunzione, si fa più amara: “Hanno cominciato a pagarci 2,5 euro l’ora, io ho provato a resistere, lavoravo anche 12 ore al giorno per portare a casa 500 euro, fino a che non hanno smesso anche di pagarci”.

Sara prova a sondare il mercato delle cooperative che si occupano di doposcuola, ragazzi con handicap e situazioni difficili, ma il pagamento è solo tramite voucher. “Allora preferisco andare a fare la baby sitter ai figli delle mie amiche”. Già, i figli. Perché Sara è sposata da anni, e da tempo aspetta di poter fare un bambino suo ma, per motivi economici, non può. Decide di cambiare settore, prova in quello assicurativo, ma anche lì le viene richiesta disponibilità full time per 450 euro al mese. Nel frattempo anche il marito, pure lui psicologo, rispolvera un corso regionale che aveva fatto dopo il liceo e si mette a lavorare nel settore logistica: porta a casa 1200 euro, ma il contratto scade ogni sei mesi. Lei comincia a mettere mano ai risparmi, quei 15-20mila euro che le sembravano tantissimi, fino a che il lavoro c’era. Oggi di strade non ne vede più, i bandi regionali per l’inserimento dei giovani la escludono per l’età, aprire un negozio a Palermo è una pazzia, “sono più quelli che chiudono che quelli che aprono”.

Aiuti dai genitori, entrambi insegnanti (e anche loro sgomenti di una situazione che non capiscono)? “Diretti no, magari mia madre mi compra la carne, mi dà i soldi per il parrucchiere. A me pesa, se lavorassi li accetterei più volentieri che così”. Ma cosa fanno le sue coetanee? “Una ha preso un diploma come operatrice sociosanitaria, un’altra ha aperto un agriturismo, altre sono commesse, altre solo le mamme oppure vivono ancora con i genitori”. A conti fatti, resta lo stipendio del marito – il cui padre era dipendente comunale, dunque dipendente pubblico come i genitori di Sara – a cui vanno sottratte 450 euro per l’affitto di una casina di 45 metri quadri. Troppo piccola davvero per contenere spazio per i sogni. Che, tra l’altro, anno dopo anno, vanno allontanandosi sempre di più.

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Lavoro, le storie dei working poor italiani. “Con lo stipendio non arriviamo a fine mese. Dobbiamo andare a rubare?”

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