E se Donald Trump avesse vinto proprio perché è razzista? Molti si stupiscono, in queste ore, che gli americani abbiano potuto votare in maggioranza per un candidato che, tra le sue tante peculiarità, ha un atteggiamento apertamente ostile verso molte minoranze.

La narrazione dominante presenta Trump come il campione delle vittime della globalizzazione, di quelli che sono rimasti schiacciati tra l’apertura dei mercati a l’evoluzione tecnologica. E’ una lettura che arriva all’esito paradossale di presentare The Donald quasi come un uomo di sinistra, a difesa degli oppressi (mentre i Democratici starebbero con gli oppressori). Una tesi che non mi aveva mai convinto del tutto. Poi ho letto il lungo saggio di Zack Beauchamp, su Vox.com, White Riot. E’ molto lungo, ma la sostanza è questa: dalla Francia, alla Gran Bretagna agli Usa non c’è alcuna evidenza statistica convincente che l’aumento dei voti per l’estrema destra sia legato a come cambia reddito, ricchezza e prospettive economiche. Sembra dipendere molto più dalla xenofobia, dall’atteggiamento verso le minoranze, i migranti e i tradizionali bersagli della destra.

Non ci sarebbe, insomma, alcun determinismo. Non è la crisi che ti fa diventare di destra. Ma è il confronto con i diversi – in Europa per le migrazioni, negli Usa per il cambiamento demografico – che tira fuori il peggio di noi.

Guardate la mappa qui sotto: se avessero votato soltanto gli afroamericani, tutti ma proprio tutti i 50 Stati americani sarebbero andati ai democratici. E già questo indica una faglia razziale, diciamo così, che connota i Repubblicani come un partito molto più bianco.

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Sul Washington Post Michael Tesler ha dimostrato che i Repubblicani con i maggiori pregiudizi razziali erano molto più inclini a supportare Trump rispetto a chi invece risultava più moderato. Non è sempre stato così: negli ultimi decenni il partito Repubblicano si era caratterizzato come un’alleanza “color blind”, cioè non strettamente bianca. Lo studio comparato di Tesler dimostra che il risentimento razziale – misurato dalla condivisione di frasi come “i neri potrebbero essere come noi se solo si impegnassero di più” – non era mai stato tanto determinante nella scelta del candidato Repubblicano alla presidenza come nel caso di Trump. In sintesi: Trump ai razzisti è piaciuto molto più che i suoi predecessori recenti, Mitt Romney e John McCain. O, se volete dirla diversamente, Trump ha vinto la nomination Repubblicana perché è piaciuto molto ai razzisti del suo partito.

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Facile anche qui cadere in logiche deterministiche: aumentano gli immigrati e, in assenza di politiche di integrazione efficaci, cresce la paura che alimenta la destra. Ma come dimostra questo grafico del Pew Research Center, un think tank imparziale, sono anni che il numero degli immigrati irregolari si è stabilizzato negli Stati Uniti. Quei messicani che Trump vuole fermare costruendo un muro non aumentano più dal 2009, in percentuale sulla forza lavoro.

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Va però notato che alcuni degli Stati decisivi per la Casa Bianca in cui Trump ha sconfitto Hillary Clinton sono anche quelli che hanno la percentuale di americani di origine ispanica maggiore, come dimostra un’altra cartina del Pew Research Center. La Florida, per esempio, ma anche lo Utah dei mormoni, o il Texas. Ma ce ne sono altrettanti con le medesime percentuali di ispanici, dalla California a New York, che sono andati ai Democratici. Quindi è difficile stabilire una correlazione tra l’aumento dei “diversi” – ammesso che questa parola abbia un senso in una nazione di immigrati – e il voto verso destra.

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Resta soltanto un’interpretazione: otto anni fa la vittoria di Barack Obama è stata vissuta come il trionfo di una minoranza – quella afroamericana, ma anche quella progressista – a danno di altre minoranze. Quelle bianche, xenofobe, che si sentono oppresse e minacciate. Obama è stato il presidente nero in un Paese dove, come si è visto alle primarie Repubblicane, un candidato capace di aggregare le preferenze dei razzisti può vincere. E dove ragazzi neri possono essere uccisi in strada da poliziotti che non finiscono neppure a processo, dove i neri non hanno diritto neppure a una ragionevole aspettativa di vita, come ha raccontato magistralmente Ta-Nehisi Coates nei suoi articoli e libri.

Nel 2008 Obama ha dimostrato che “Yes we can”. Otto anni dopo un’altra minoranza, quella dei bianchi razzisti e spaventati ha dimostrato che si può conquistare la Casa Bianca anche senza essere maggioranza. Basta il candidato giusto, un buon uso dei social network e un messaggio semplice e innovativo.

Piccolo problema: se la paura deriva dalla globalizzazione o dall’economia, basta aspettare la ripresa o rinunciare a qualche trattato commerciale. Combattere il razzismo e la ricerca dei capri espiatori – come insegna la storia europea del Novecento – è molto più difficile. Forse impossibile.

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