Dopo le farse europee umoristicamente definite referendum – da quello di Tsipras sull’austerità in Grecia, a quello di Orban sull’immigrazione, passando per la Brexit e l’indipendenza della Catalogna – le presidenziali americane propongono uno schema comicamente analogo su scala amplificata.

Ho vissuto 11 anni in America, tastando umori e rigurgiti acquitrinosi pervasivamente diffusi, ma filtrati e sterilizzati dalla cortina benpensante che presidia l’accesso a telegiornali ed editoriali. Quando durante i mesi scorsi i soloni ripetevano che Trump non avrebbe mai prevalso, non riuscivo a reprimere le risa.

Esiste e resiste un’America da decenni in attesa di un Messia politico (dal suo punto di vista), che conferisca dignità e dia la stura mediatica a farneticazioni assortite: che i latinos siano stupratori e delinquenti, che gli immigrati rubino il lavoro ai timorati di Dio, che se sei ricco per sedurre le donne basti toccare loro il culo, che la fabbrica nel borgo natio abbia chiuso per colpa dei cinesi, che se fallisci fottendo gli altri sei un furbo, che la difesa europea non debba pagarla il Pentagono, che i musulmani vadano debellati, che con i dazi doganali si ristabiliscano ricchezze e splendori, ecc.

Quando un tale magma venefico viene canalizzato verso l’arena politica da cui era stato ostracizzato, i sondaggi si trasformano in riti pseudo-esoterici perché nessuna tecnica di campionatura riesce ad identificare quei segmenti dell’elettorato auto-alienatisi dal processo elettorale.

Mi spiego in termini semplici: un sondaggio condotto su 2000 persone per prevedere il voto (e la partecipazione) di oltre 200 milioni di elettori richiede che ognuno dei 2000 interpellati rappresenti la scelta nelle urne di 100mila individui con un margine medio di errore intorno al 2-3%. L’incantesimo si materializza solo quando i votanti si comportano in modo molto simile al passato. Se un fattore dirompente squarcia gli equilibri (una sorta di effetto Mule nella Trilogia della Fondazione di Asimov), le tecniche di campionatura statistica assumono la valenza dei sistemi che divinano l’estrazione del Superenalotto.

Peraltro l’onda di piena del trumpismo è stata ingrossata dalla figura di Hillary Rodham coniugata Clinton. Leguleia di provincia, approda sul palcoscenico mondiale grazie al sensazionale colpo di fortuna che catapultò il marito dall’Arkansas alla Casa Bianca. Tuttavia più tempo passa sotto i riflettori più solidifica la sua reputazione come una delle figure meno rispettate d’America. Intellettualmente è un peso piuma e al pari delle piume cambia direzione a seconda del vento (o delle donazioni). Stava per batterla nelle primarie nientemeno che Bernie Sanders, il quale si dichiara apertamente socialista, una bestemmia in chiesa per quattro quinti degli americani.

La forza propulsiva del duo Clinton deriva dall’aver realizzato nel mercato politico quello che nei testi di management e di microeconomia si definisce “integrazione verticale”. In pratica tra politici e interessi organizzati in America è incistato il settore delle lobby. I Clinton hanno tagliato fuori gli intermediari lobbisti, creando una Fondazione (modello copiato anche da cacicchi italiani) che gestisce il flusso di risorse alla macchina politica e alle loro tasche.

Lo scandalo emailgate che ha annientato in dieci giorni il già pericolante vantaggio (nei sondaggi) dell’ex first lady non riguarda la sicurezza informatica e la violazione di astrusi protocolli burocratici, ma costituisce l’attacco al cuore del sistema. Le comunicazioni per faccende non esattamente irreprensibili conservate in un server nella cantina di casa Clinton, sono finite in mano all’Fbi, il cui capo, dopo aver insabbiato lo scandalo a luglio, non ha potuto più continuare a fischiettare indossando la maschera dello gnorri.

Ad ogni modo, prevedere come finirà la competizione elettorale tra due concentrati di mediocrità è esercizio sterile, perché non sarà il Presidente a cambiare il mondo, ma il mondo a riplasmare il Presidente. Allo stesso modo in cui la realtà ha purgato Syriza dalle mattane, ha trasformato la Brexit in una patetica pantomima e ha ribaltato il voto del sedicente Parlamento vallone sul libero scambio col Canada.

In Usa il Presidente ha limitati poteri diretti (concentrati nella politica estera e di difesa) e deve presiedere a una macchina amministrativa elefantiaca del cui funzionamento dopo 4 anni avrà sommariamente compreso a malapena il 50%. Trump o Clinton dovranno affidarsi ad un vasto team di ministri e consiglieri, vagliati preventivamente dal Senato. Per le sorti di un’amministrazione è più importante il Chief of Staff, il ministro del Tesoro o il Segretario di Stato, mentre un Presidente che non abbia il supporto del Parlamento (come Obama) si riduce al taglio dei nastri e ai brindisi con gli ospiti.

Chiunque vinca le elezioni si troverà di fronte il baluardo del Congresso e del Senato (che in tutta probabilità gli, o le, saranno ostili) la palude dei ministeri, grandi interessi economici, associazioni varie nonché istituzioni nazionali e internazionali che ne imbriglieranno le velleità, come i Lillipuziani fecero con Gulliver. Washington è una città adusa a intortare il Capitan Fracassa di turno convinto di bonificarla (ricordate il ritornello Yes we can?), mondarla dalle nequizie o piegarla ai propri desiderata. Chi non se ne avvede si ritrova in cima alla classifica di quel gigantesco virtuale YouPorn che è la politica americana. Nella sezione Von Sacher-Masoch.

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