“Vorrei che questo processo si svolgesse in mezzo a una piazza. Così tutti potrebbero assistere a quello a cui stiamo assistendo noi familiari in questo processo. E’ da 33 anni che aspettiamo la verità: è ancora troppo presto per esaminare tutti gli elementi che già sono – ed in buona parte erano da tempo – a disposizione dell’inquirente?”
Queste sono le parole con cui Paola Caccia, figlia del procuratore di Torino Bruno Caccia, ha commentato le prime udienze del processo (l’ultima svoltasi ieri) che vede imputato, quale presunto esecutore materiale dell’omicidio del padre, il calabrese Rocco Schirripa (nella foto mentre sale in macchina).

Quello in corso è il secondo processo che riguarda l’omicidio di Bruno Caccia (avvenuto il 26 giugno 1983); il primo si celebrò alla fine degli anni Ottanta e si concluse con la sentenza che condannò all’ergastolo per il delitto di omicidio premeditato l’imputato, Domenico Belfiore, riconosciuto organizzatore e mandante di quell’omicidio, mentre fu assolto il coimputato Placido Barresi (cognato di Belfiore). I due esecutori (Caccia venne assassinato sotto la sua abitazione da due killer) allora rimasero sconosciuti.

L’avvocato della famiglia Caccia, Fabio Repici, all’apertura dell’udienza dibattimentale, ha evidenziato alcune “peculiarità” del primo processo: la sentenza d’appello venne, la prima volta, annullata con rinvio dalla Cassazione, che “censurò in modo particolare la lacunosità degli accertamenti sulla causale del delitto. (…) Nella sentenza a carico di Belfiore emerge che tutta l’attività istruttoria, sia quella dibattimentale e sia quella della fase istruttoria e dell’istruttoria formale, ha plasticamente omesso ogni tipo di accertamento sull’attività che, nel periodo precedente al delitto di cui fu vittima, era stata svolta dal procuratore della Repubblica di Torino”.

Il primo processo, inoltre, non ha visto testimoniare i colleghi di Caccia sulle attività svolte dal magistrato, vuoto che la parte civile ha chiesto di riempire chiamandoli a deporre ora, non essendosi mai visto, nella storia giudiziaria italiana, “un processo, relativo all’omicidio di un magistrato, nel quale non fossero stati sentiti i colleghi d’ufficio della vittima e i colleghi più vicini alla stessa”. L’avvocato di parte civile, inoltre, sempre all’udienza del 10 ottobre 2016, ha fatto notare come le lacune, presenti nelle prime indagini e nel primo dibattimento, non abbiano consentito di arrivare al completo accertamento della causalità dell’omicidio, che andrebbe ricercata, secondo lui, negli “interessi della mafia calabrese e della mafia siciliana insieme nei casinò e che riguardano anche il gruppo Belfiore di cui, nella prospettazione accusatoria, Rocco Schirripa è partecipe”. Non per niente, infatti, il pubblico ministero stesso ha qualificato Schirripa come “imputato di omicidio in concorso con Domenico Belfiore e altri”, allo Stato ancora ignoti.

Nei decenni trascorsi dall’assassinio del procuratore, infatti, emersero di tanto in tanto risultanze sull’omicidio Caccia in altre sedi, ma – ha sostenuto Repici – “Mai nessuno si era preso l’onere di raccoglierle, di metterle insieme. Erano rimaste come detriti da non utilizzare in altre sedi processuali. Noi riteniamo che questa sia la sede nella quale tutte le risultanze devono essere portate in una istruttoria dibattimentale, perché la Corte possa emettere nei confronti dell’odierno imputato una sentenza avendo il quadro più completo e chiaro possibile”.

Eppure per il pubblico ministero dell’attuale processo per l’omicidio Caccia questi temi “non sembrano essere rilevanti per la posizione dell’imputato Rocco Schirripa, perché è un tema che riguarda la causale, è un tema che riguarda Domenico Belfiore” e perché “questo è un processo che riguarda una singola persona fisica, Rocco Schirripa, accusato di essere uno degli esecutori materiali. Una sentenza definitiva ha già accertato che Domenico Belfiore era l’organizzatore e una sentenza definitiva ha già stabilito anche le causali dell’omicidio”.

Capire i moventi, riempire le lacune e correggere le inesattezze, se ve ne furono, del primo processo, quindi, sembra non essere importante per il dibattimento in corso a Milano, nonostante esso tratti un omicidio fondamentale per la storia italiana, nonostante esso processi l’attuale imputato per un reato commesso “in concorso con” il mandante imputato e condannato nel primo processo. Per il pubblico ministero c’è un diritto superiore: “Il diritto dell’imputato di avere un processo in tempi rapidi”. Come se le garanzie da assicurare all’imputato circa la ragionevole durata del processo debbano essere in contrapposizione all’acquisizione degli elementi necessari per ricostruire il quadro dei moventi del delitto.

Elementi che, a quanto pare, sembrano essere non così irrilevanti se un collega di Bruno Caccia, il dottor Francesco Saluzzo, attuale Procuratore generale di Torino, non più tardi dello scorso 28 giugno (come riportato da Ansa e Repubblica), disse pubblicamente che uccisero Caccia “mentre aggrediva un tessuto criminale insidiosissimo, contro il quale non si era fatto nulla per tanti anni. Oggi si sente dire che di ‘ndrangheta in Piemonte non si è mai parlato, ma non è vero: i processi ai suoi protagonisti, così come le indagini su quello che fu il ‘patto di sangue’ tra calabresi e catanesi, li facevamo già alla fine degli anni Settanta”, arrivando a citare anche quegli “ambienti che prosperavano vicino alla procura, con la complicità o la non opposizione di magistrati opachi per non dire di peggio”.

Forse è per questo che Paola Caccia avrebbe voluto che questo processo si svolgesse in una pubblica piazza. Perché, allo stato degli atti, solo in quel contesto sembrerebbe possibile avere speranza di ricostruire un quadro tanto necessario quanto, dopo 33 anni, anche dovuto.

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