Prima l’accusa di aver aggirato l’embargo imposto dagli Usa a Cuba, poi quella di aver evaso le tasse per 18 anni. L’ultimo addebito riguarda l’Iran: Donald Trump avrebbe affittato a una banca di Teheran un ufficio a New York dal 1998 al 2003: l’istituto figurava nella lista nera delle istituzioni iraniane legate al terrorismo e al programma nucleare. La rivelazione porta la firma del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi, a cui aderiscono testate come il New York Times e il Guardian e che svelò all’inizio dell’anno i cosiddetti Panama Papers.

Il gruppo immobiliare di Trump, emerge dall’inchiesta, ereditò come inquilino la Bank Melli, una delle più grandi banche controllate dallo Stato iraniano, quando acquistò il General Motors Building sulla Fifth Avenue, davanti all’ingresso di Central Park. Nonostante il Dipartimento al Tesoro americano nel 1999 avesse inserito la banca nel gruppo delle istituzioni finanziarie da sanzionare perché legate al governo di Teheran, Trump continuò per anni ad affittare alla Bank Melli. Banca che fu utilizzata da Teheran – l’accusa mossa – per ottenere “materiali sensibili” per portare avanti il proprio programma nucleare. Tra il 2002 e il 2006 poi, per le autorità Usa l’istituto fu usata per finanziare un’unità della Guardia Rivoluzionaria che avrebbe sponsorizzato diversi attacchi terroristici.

Il 29 settembre il candidato alla Casa Bianca con il Partito Repubblicano era stato accusato da Newsweek di aver fatto in gran segreto affari con Cuba, violando ripetutamente l’embargo degli Stati Uniti verso il regime di Fidel Castro quando questi era presidente. L’inchiesta, intitolata The Castro Connection, l’immobiliarista newyorkese avrebbe agito attraverso una società da lui controllata investendo illegalmente denaro nell’isola caraibica alla fine degli anni ’90.

Pochi giorni dopo, il 2 ottobre, il New York Times aveva pubblicato la dichiarazione dei redditi di Donald Trump per il 1995, in cui spiccava la somma di 916 milioni di dollari denunciata come perdita e la conseguente detrazione fiscale che, in quella entità dovrebbe aver consentito al magnate del mattone di spalmarla legalmente e di non pagare le imposte federali per i 18 anni successivi. Insomma, se provata, una conferma di quanto ipotizzato dalla rivale Hillary Clinton che durante il primo il dibattito televisivo del 26 settembre aveva chiesto al candidato repubblicano se forse il motivo per cui non diffondeva i documenti era per rivelare che non paga proprio le imposte federali.

La seconda cattiva notizia di giornata per il miliardario arriva dal procuratore generale di New York, Eric Schneiderman, che ha ordinato alla Trump Foundation lo stop immediato dell’attività di raccolta fondi nello Stato di New York, in quanto risulta che l’organizzazione non è provvista del permesso richiesto dalle leggi statali per accettare donazioni. Nella lettera che comunica la disposizione con effetto immediato si precisa inoltre che la stessa fondazione è stata attiva nella raccolta fondi quest’anno a New York pur non essendo autorizzata.

L’attenzione sulla Fondazione Trump era stata portata nei giorni scorsi dal Washington Post con la segnalazione che non aveva appunto mai ottenuto i certificati necessari a New York per raccogliere fondi da donatori esterni. Secondo le leggi dello Stato di New York qualsiasi charity che chieda soldi al pubblico per più di 25 mila dollari l’anno deve ottenere (in anticipo) una registrazione speciale.

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