Devo ammettere che una vampata di goduria (politica) così intensa non la provavo dai tempi del referedum convocato da quel fenomeno di Tsipras. Essenzialmente il destino ineluttabile dei referendum farsa è di ribaltarsi violentemente contro i demagoghi da strapazzo che li propugnano, pescando nel bacino di ignoranza e paure irrazionali abilmente propagate nell’elettorato.
Accadde appunto con il Referendum della Menzogna in Grecia (era impossibile rimanere nell’euro e continuare a fare i propri porci comodi fiscali con i soldi altrui), in seguito al quale la Grecia dovette prostrarsi in una situazione disperata a condizioni molto più stringenti di quelle che aveva negoziato con la Trojka.
E accade in presa diretta nel Regno (forse ancora per poco) Unito dove si sta addensando la bufera sul capo di Boris Johnson, conosciuto nelle taverne come BoJo (ad evocare il Mojo perso da Austin Powers). Il piccolo assaggio, servito in mondovisione venerdì 24 giugno, del crack economico-finanziario che si prospetta per i sudditi di Sua Maestà, ha messo brutalmente fine alla sbornia xenofobo-nazionalista. Con la differenza che le pozze di vomito politico, sparse nella campagna elettorale, saranno meno facili da ripulire di quelle lasciate dagli alcolizzati venerdì e sabato notte sui marciapiedi di Londra.
Il fausto risultato elettorale, che da convinto europeista avevo auspicato nel post precedente, per toglierci dai piedi le verruche dei pertinaci sabotatori del federalismo europeo (il video illustra l’atteggiamento inglese), non è l’unico motivo di giubilo.
Tanto per comininciare, la carriera politica del Leader dell’Opposizione di Sua Maestà, quel Corbyn che aveva fatto ripiombare il Labour nelle anacronistiche posizioni di estremismo caricaturale, è franata. Accusandolo di aver tenuto una “condotta ambigua” (versione chip and fish della doppiezza togliattiana), metà del suo governo ombra lo ripudia in attesa che la mozione di sfiducia lo ricacci nella pattumiera della Storia da cui era emerso facendo leva sulla demagogia speculare a quella di Farage.
Ma la parte più gustosa della pagliacciata sul referendum riguarda i Conservatori. I compagni di merende sul Tamigi, che avevano orchestrato il colpaccio per defenestrare Cameron, avevano in mente un altro copione. Secondo questi geni della strategia politica, all’annuncio dei risultati referendari il governo avrebbe attivato all’istante la procedura ex art. 50 del Trattato di Lisbona, gravandosi della responsabilità di dare seguito alla “volontà popolare”. Inoltre, negoziando i termini dell’uscita avrebbe fatto da bersaglio a tutte le insoddisfazioni e le rovine generate dall’umiliazione e dalla deriva isolazionista.
Invece Cameron, annunciando le sue dimissioni, ha tirato fuori dalla gabbia un magnifico esemplare di fringuellone padulo, dalle piume di cristallo taglienti e acuminate, spedito ai suoi avversari interni come regalo d’addio. Fuor di metafora, a questo punto, se Boris Johnson non si candida come successore di Cameron risulterà agli occhi dei suoi sostenitori un buffone incapace.
Se invece concorre e vince la leadership sarà lui in persona a dover attivare la procedura di uscita e pagherà le conseguenze della recessione che comunque è già in atto e che nessuno può prevedere quanto durerà. Non a caso Cameron ha scelto il mese di ottobre per il passaggio di consegne. Infatti intorno alla fine di quel mese saranno annunciati i dati sulla crescita del Pil nel terzo trimestre 2016 che quasi sicuramente accuserà una battuta d’arresto imputata a Johnson (e Farage). Senza contare che la Scozia e l’Irlanda del Nord a quel punto si staccherebbero dal Regno Unito, ribattezzato Piccola Bretagna. Una nemesi feroce per i nostalgici dell’Impero e gli adepti della sovranità nazionale.
Ma c’è una terza possibilità ancora più devastante: la richiesta di Brexit dovrebbe essere votata dal Parlamento perché il referendum, essendo un mero plebiscito consultivo di stampo sudamericano, non ha alcun valore legale. Infatti il governo di Edimburgo ha annunciato che sulla Brexit la Scozia ha il diritto di veto in base all’accordo sulla devolution. E se il Parlamento voterà contro la Brexit, (come è probabile nel caso i fedeli di Cameron si unissero ai labouristi e ai LibDem) Boris Johnson e i suoi accoliti faranno una figura ancora più miserevole di Varoufakis e Syriza.
Per questo i galletti che avevano inopinatamente alzato la cresta venerdì mattina, rimirandosi nello specchio a sera hanno colto l’immagine di un pollastro che ora starnazza di non avere fretta e che l’art. 50 può aspettare. Invece io spero che da Bruxelles e Francoforte non si tergiversi e non si ostacoli il cammino verso i radiosi orizzonti della ritrovata indipendenza.
Sarebbe oltremodo opportuno che la Bce sospendesse l’accordo di swap con la Bank of England per erogare liquidità in euro durante le emergenze, in quanto la crisi non deriva da uno shock inaspettato, ma da un preciso disegno politico di cui il Regno Unito deve farsi carico con le sue sole forze, come del resto auspicato dagli xenofobo-nazionalisti. Inoltre, in attesa di negoziare i termini dell’uscita, il cosiddetto “passaporto europeo” andrebbe ritirato alle istituzioni basate nel Regno Unito, perché potrebbero costituire un rischio sistemico per il resto dell’Europa.
Se per ventura, a seguito di questi provvedimenti, il sistema bancario britannico dovesse finire di nuovo in bancarotta ci toccherebbe spiegare a sinceri liberisti e libertari come Johnson e Farage: “E’ il mercato bellezze! Che vogliate uscire dall’Ue per meglio competere sul mercato globale è un ottimo proposito. Ma il mercato globale non è un club polveroso di attempati signori, un po’ altezzosi, con predilezione per l’alcol. Nel mercato globale finisce che i mediocri soccombono. Soprattutto quando hanno la tendenza a sopravvalutarsi”.
Tanto per comininciare, la carriera politica del Leader dell’Opposizione di Sua Maestà, quel Corbyn che aveva fatto ripiombare il Labour nelle anacronistiche posizioni di estremismo caricaturale, è franata. Accusandolo di aver tenuto una “condotta ambigua” (versione chip and fish della doppiezza togliattiana), metà del suo governo ombra lo ripudia in attesa che la mozione di sfiducia lo ricacci nella pattumiera della Storia da cui era emerso facendo leva sulla demagogia speculare a quella di Farage.
Ma la parte più gustosa della pagliacciata sul referendum riguarda i Conservatori. I compagni di merende sul Tamigi, che avevano orchestrato il colpaccio per defenestrare Cameron, avevano in mente un altro copione. Secondo questi geni della strategia politica, all’annuncio dei risultati referendari il governo avrebbe attivato all’istante la procedura ex art. 50 del Trattato di Lisbona, gravandosi della responsabilità di dare seguito alla “volontà popolare”. Inoltre, negoziando i termini dell’uscita avrebbe fatto da bersaglio a tutte le insoddisfazioni e le rovine generate dall’umiliazione e dalla deriva isolazionista.
Invece Cameron, annunciando le sue dimissioni, ha tirato fuori dalla gabbia un magnifico esemplare di fringuellone padulo, dalle piume di cristallo taglienti e acuminate, spedito ai suoi avversari interni come regalo d’addio. Fuor di metafora, a questo punto, se Boris Johnson non si candida come successore di Cameron risulterà agli occhi dei suoi sostenitori un buffone incapace.
Se invece concorre e vince la leadership sarà lui in persona a dover attivare la procedura di uscita e pagherà le conseguenze della recessione che comunque è già in atto e che nessuno può prevedere quanto durerà. Non a caso Cameron ha scelto il mese di ottobre per il passaggio di consegne. Infatti intorno alla fine di quel mese saranno annunciati i dati sulla crescita del Pil nel terzo trimestre 2016 che quasi sicuramente accuserà una battuta d’arresto imputata a Johnson (e Farage). Senza contare che la Scozia e l’Irlanda del Nord a quel punto si staccherebbero dal Regno Unito, ribattezzato Piccola Bretagna. Una nemesi feroce per i nostalgici dell’Impero e gli adepti della sovranità nazionale.
Ma c’è una terza possibilità ancora più devastante: la richiesta di Brexit dovrebbe essere votata dal Parlamento perché il referendum, essendo un mero plebiscito consultivo di stampo sudamericano, non ha alcun valore legale. Infatti il governo di Edimburgo ha annunciato che sulla Brexit la Scozia ha il diritto di veto in base all’accordo sulla devolution. E se il Parlamento voterà contro la Brexit, (come è probabile nel caso i fedeli di Cameron si unissero ai labouristi e ai LibDem) Boris Johnson e i suoi accoliti faranno una figura ancora più miserevole di Varoufakis e Syriza.
Per questo i galletti che avevano inopinatamente alzato la cresta venerdì mattina, rimirandosi nello specchio a sera hanno colto l’immagine di un pollastro che ora starnazza di non avere fretta e che l’art. 50 può aspettare. Invece io spero che da Bruxelles e Francoforte non si tergiversi e non si ostacoli il cammino verso i radiosi orizzonti della ritrovata indipendenza.
Sarebbe oltremodo opportuno che la Bce sospendesse l’accordo di swap con la Bank of England per erogare liquidità in euro durante le emergenze, in quanto la crisi non deriva da uno shock inaspettato, ma da un preciso disegno politico di cui il Regno Unito deve farsi carico con le sue sole forze, come del resto auspicato dagli xenofobo-nazionalisti. Inoltre, in attesa di negoziare i termini dell’uscita, il cosiddetto “passaporto europeo” andrebbe ritirato alle istituzioni basate nel Regno Unito, perché potrebbero costituire un rischio sistemico per il resto dell’Europa.
Se per ventura, a seguito di questi provvedimenti, il sistema bancario britannico dovesse finire di nuovo in bancarotta ci toccherebbe spiegare a sinceri liberisti e libertari come Johnson e Farage: “E’ il mercato bellezze! Che vogliate uscire dall’Ue per meglio competere sul mercato globale è un ottimo proposito. Ma il mercato globale non è un club polveroso di attempati signori, un po’ altezzosi, con predilezione per l’alcol. Nel mercato globale finisce che i mediocri soccombono. Soprattutto quando hanno la tendenza a sopravvalutarsi”.
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