di Alberto Ghidoni *

Da tempo il governo dichiara di avere l’obiettivo di arginare la piaga del caporalato, presente in maniera massiccia in agricoltura così come nell’edilizia ed in svariati altri settori; si tratta peraltro di una figura di reato prevista dall’art. 12 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 che stabilisce, a carico dei caporali, la reclusione da cinque a otto anni oltre ad una multa per ogni lavoratore. Lo sfruttamento di manodopera – di cui il caporalato è la patologia più grave – si fonda, ancora oggi, sull’approfittamento dello stato di bisogno di soggetti deboli che, per ragioni indipendenti dalla propria maggiore o minore qualificazione o dal titolo di studio posseduto, si trovano in balia di chi può offrire loro un reddito, purchessia.

La categoria “soggetti deboli” è trasversale sul piano anagrafico, in inevitabile concorrenza al proprio interno e non misurabile in maniera certa. Lo stesso sfruttamento di manodopera è fenomeno che si aggiorna periodicamente, peraltro alla ricerca di strade che possano dare veste di legittimità a questa condotta. Esemplare il possibile utilizzo distorto del lavoro accessorio, il cosiddetto ‘voucher. Il legislatore del Jobs act, con il D. lgs n.81/2015 agli artt.48-50, nel riformare la disciplina, ha deciso di limitarne l’uso solo sul piano del massimo compenso annuo individuale (in passato era limitato a tipologie di lavoro specifiche).

Sinteticamente, il voucher – buono lavoro emesso telematicamente dall’Inps – prevede un compenso netto pari a €7,50/ora, oltre alla copertura previdenziale Inps (in gestione separata) e assicurativa Inail. La prestazione può essere svolta in tutti i settori produttivi (fatta eccezione per delle limitazioni in agricoltura), compreso il comparto pubblico. L’unico limite riguarda il compenso massimo, ‘nel corso di un anno civile’, che non può superare il valore di €.7.000 euro, con il limite di €.2.000 per ciascun committente. Nonostante queste limitazioni e anche volendo considerare i casi di lavoro accessorio genuino, ci si domanda come un committente possa verificare, in concreto e preventivamente, se il lavoratore abbia superato la soglia di € 7.000 annui. Peraltro mancano in proposito sanzioni.

Il legislatore del jobs act ha poi previsto il divieto di utilizzo dei voucher nell’esecuzione di appalti di opere o di servizi (siamo tuttavia ancora in attesa di decreto ministeriale sul punto).
La mancata limitazione a settori specifici sembra avere aperto la strada a nuove forme di precariato e di elusione; lo stesso Ministro del lavoro si è detto convinto della necessità di un intervento sul fenomeno dei voucher, letteralmente esploso dopo il jobs act: “abbiamo deciso di stringere i bulloni intorno al sistema dei voucher per limitare o, se ce la facciamo, evitare in assoluto che si producano furbate”. L’intervento immaginato risulterebbe riferito alla sola tracciabilità dei voucher; nonostante sia ormai evidente l’utilizzo di voucher in maniera indifferenziata – ed anzi una tendenza ad utilizzarli per ruoli e prestazioni che imporrebbero continuità – il Ministero sembra prevedere un intervento ‘amministrativo’ senza alcun obiettivo di protezione dei cosiddetti ‘voucheristi’.

Esistono in realtà settori produttivi in cui i voucher dovrebbero essere vietati; fra questi il settore edile, particolarmente esposto a rischi di sfruttamento e infortuni. Come il legislatore del jobs act ritenga possibile la presenza di ‘voucheristi’ all’interno di un cantiere edile, è domanda che merita una risposta urgente, al fine di scongiurare il pericolo di compromissione della sicurezza di tutti i lavoratori nei cantieri (anche dei subordinati che si trovano ad operare a fianco di lavoratori privi di conoscenze e nemmeno inseriti nei piani operativi di sicurezza). Sul piano del lavoro subordinato, peraltro, il Ccnl di settore impone un corso di 16 ore preassuntivo, attinente le basi professionali del lavoro in edilizia e la formazione sulla sicurezza. Su questi temi non si può non definire il legislatore, perlomeno, disattento.

Il settore edile è stato ed è attraversato in maniera molto rilevante dal fenomeno del caporalato. In questo ambito, l’uso del ‘buono lavoro’ o voucher rischia di diventare un utile e legale schermo, a protezione formale di attività che nulla hanno di legittimo. In particolare non può escludersi, nel quadro descritto, la figura di un caporale che, nel mantenere in nero la manovalanza che da lui dipende e a lui risponde (spesso raccolta all’alba nelle piazze di molte città), stazioni davanti al cantiere tenendo con sé dei voucher, da esibire nel caso di accessi ispettivi, oppure da mettere in tasca al lavoratore che si infortuna. In questo caso quali possibilità di indagine restano in capo agli organi ispettivi? in che modo potrebbe essere superato lo schermo fornito dal ‘buono lavoro’, in mancanza di collaborazione da parte del lavoratore interessato (che dipende esclusivamente dall’arbitrio di chi gli concede lavoro)? Per il legislatore del jobs act dovrebbe essere di interesse almeno il costo sociale connesso alla potenziale compromissione della sicurezza nei comparti produttivi, assimilabili a quello qui descritto.

* Avvocato del lavoro in Milano, studio Gariboldi-Ghidoni-Marcucci

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