Addio inverno. Evviva l’inverno. Mentre dalle coordinate italiane si saluta l’inverno 2016, che non sembra esserci mai stato, esce in libreria un piacevole saggio scritto dal giornalista del New Yorker, Adam Gopnik: L’invenzione dell’inverno (Guanda). Un vero e proprio atto d’amore per la stagione fredda, per il bianco manto innevato delle montagne, per i fiocchi e i pupazzi di neve, per il piacere statico che soggiace al Natale, e per quell’inebriante attesa al caldo, dietro al vetro di una finestra, ad osservare, fuori, il gelido inverno. Atto di sublime bellezza, in un’epoca in cui l’immagine della palma con spiaggia e mare trasparente dei paradisi caraibici simboleggia l’unico svago possibile, Gopnik ci aiuta con raffinatezza di linguaggio e mesmerica affabulazione storica a ricostruire l’evolversi e l’affermarsi di un immaginario, quello invernale, che ha sì avuto alterne fortune mediatiche, ma che una sorta di apice l’ha registrato a metà/fine ottocento quando si è affermato come dimensione ludica del piacere, come spazio da osservare e contemplare senza fiatare in totale relax. Non più l’inverno del nostro scontento, ma l’inverno ritratto da Caspar David Friedrich o da William Turner, decantato da Schubert, ammirato da Puskin o dal critico d’arte John Ruskin, amante degli acquerelli svizzeri del pittore inglese che scrisse: “La luce del sole è deliziosa, la pioggia rinfresca, il vento rinvigorisce, la neve esalta”.

Gopnik viaggia nel passato, compie il suo grand tour tirandosi su il bavero della pelliccia e infossando ben bene il colbacco di lana, ricorda come l’idea di inverno moderno venne “forgiato” nella sua dimensione di splendore in Russia e Germania, mentre in Svizzera fu il luogo dove venne “visto”. Particolare attenzione viene dedicata alla nascita del riscaldamento interno alle case, grazie alla rivoluzione industriale inglese, con il lento allargarsi ed affermarsi di una classe socioeconomica sempre più allargata che al caldo del proprio micro cantuccio poteva guardare l’inverno fuori dal vetro di casa. Da inverno temibile a inverno piacevole: “il riscaldamento centralizzato contribuì a rendere piacevole il panorama: quando si sta veramente al caldo, l’inverno diventa, più che mai, uno spettacolo da osservare; diventa, prima di tutto, qualcosa da vedere”.

La gente di metà/fine ottocento, racconta Gopnik, cominciò ad emozionarsi di fronte ai dipinti degli impressionisti, ma anche di fronte alle impresa di conquista dei poli da parte di spavaldi avventurieri, alle piste per pattinare e ai palazzi del ghiaccio nelle grandi città occidentali, all’immagine degli iceberg e dei fiocchi di neve. A tal proposito, ecco il primo aneddoto de L’invenzione dell’inverno. Tal Wilson Bentley, detto poi Snowflake, fotografò per primo nel 1885 un fiocco di neve, scattando poi per tutta la vita ben 5381 foto di cristalli di neve, introducendo così nell’immaginario collettivo “il fiore stellato come tipico fiocco di neve”. Forzando un po’ la natura in sé, ma tant’è, Bentley inventò un’icona contemporanea che ancora oggi ritroviamo dappertutto: dallo smartphone al disegno sui maglioni di lana, dalle decorazioni su piatti e bicchieri ai portachiavi. Aneddoto per aneddoto, guarda caso, in quel periodo di esaltazione massima per l’inverno sbuca dal nulla perfino Babbo Natale. Fu l’illustratore newyorchese Thomas Nast – quello che inventò l’elefantino dei repubblicani e l’asinello dei democratici – a stampare per la prima volta un signore con barba bianca, occhialetti, e vestitone rosso nel 1862 su Harper’s Weekly. Ed è dagli anni ottanta dell’800 che inizia ad affermarsi anche il Natale, da festa nordica e protestante penetrata nei paesi e nelle usanze più cattoliche, come rito sociale inamovibile nella vulgata comune, carico sì di quella commercializzazione dell’evento (sempre a metà/fine ottocento scoppiò la mania dei biglietti d’auguri o l’atto del regalo foraggiando i grandi magazzini ndr) ma anche valore assoluto di pace. Ripetere ancora una volta l’esempio del Natale del 1914 quando tra le trincee francesi e tedesche i fanti fecero tacere le armi per festeggiare il Natale, scambiarsi doni, e farsi due tiri a calci, sembra quasi patetico. Eppure fu verissimo.

La trasformazione del Natale tra l’800 e il ‘900 passa sotto la lente d’ingrandimento di Gopnik che ne individua il divulgatore massimo, quel Charles Dickens che con Canto di Natale (1843) compì la rivoluzione copernicana del Natale all’interno del nuovo immaginario dell’inverno, tanto quanto il coevo Marx affrancò teoricamente la classe operaia dal dispotismo del capitale. Innervato su una continua playlist classicheggiante, L’invenzione dell’inverno conclude il suo brillante percorso storico d’analisi con una dolente nota nostalgica, un diesis da umidità tropicale. “Qualcosa sta scomparendo”, scrive Gopnik riferendosi ai cambiamenti climatici che hanno accelerato scioglimento di ghiacci, nevi e permafrost, e la cancellazione dal sentire comune dell’idea positiva dell’inverno. Come chiedevano gli inuit di fronte al riscaldamento globale “abbiamo diritto ad aver freddo”, richiesta impellente e assoluta anche per noi, poveri mediterranei amanti del freddo al di sotto delle magnifiche Alpi. Perché l’inverno è quella “fase di sospensione del tempo”, l’immagine di quel bimbo intabarrato che esce di casa per fare un pupazzo di neve. Il tempo si ferma, il suono è ovattato, la mamma guarda dalla finestra il cielo bianco e compatto che fa decelerare il ritmo del respiro. “L’inverno è la pagina bianca sulla quale scriviamo il nostro cuore”.

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