Sono 19 i detenuti di fede islamica radicalizzati e ristretti in apposite sezioni di alta sicurezza mentre circa 200 sono gli “attenzionati”. A diffondere i dati è Antigone, l’associazione che si batte per i diritti nelle carceri, che ha elaborato i numeri provenienti da fonti ufficiali del Ministero della Giustizia per effettuare una ricognizione sui culti religiosi professati dai detenuti e sui ministri di culto presenti nelle carceri. Il risultato dell’indagine è stato presentato durante il convegno “Diritti religiosi in carcere-una risposta razionale alla radicalizzazione”.

Degli oltre 50 mila detenuti 34.949 sono italiani mentre 17.526 si dividono tra 138 nazionalità diverse: i più numerosi sono i marocchini, seguiti da rumeni e albanesi. Di questi la maggior parte dichiara di essere cattolico (29.161) mentre 5.781 sono di fede islamica, tra cui 129 italiani. Il numero degli ortodossi ammonta invece a 2.223, 42 ebrei ai quali si affiancano poche decine di evangelici, buddhisti, hindu, testimoni di Geova e anglicani. Lo studio evidenzia poi che in ogni istituto penitenziario c’è una cappella con un cappellano cattolico ma i diritti religiosi dei detenuti non sono ancora garantiti allo stesso modo. Per gli imam infatti, l’accesso alle carceri è difficile “per motivi di sicurezza” e per la mancanza di spazi ad hoc: a fronte di 411 cappellani cattolici autorizzati, sono solo 11 gli imam “certificati”. Dato ribaltato per quanto riguarda i testimoni di Geova: per appena 31 detenuti appartenenti al culto sono 492 i ministri volontari che visitano gli istituti ogni anno.

Per l’associazione “garantire questi diritti” è “una risposta democratica alla radicalizzazione” in particolare data la significativa presenza “di detenuti di fede islamica” che “giustifica l’indicazione di dar vita a luoghi di culto nei singoli istituti, oltre che prestare un’attenzione non formale alle regole di alimentazione“. Secondo il rapporto presentato resta però una grande eterogeneità nelle regole di accesso al carcere dei ministri delle diverse chiese: mentre il cappellano è presente per legge in tutte le carceri italiane e retribuito dallo Stato, ci sono i ministri delle altre confessioni che non hanno firmato intese, come l’Unione delle comunità islamiche (Ucoii), “per i quali, quando ci si riesce, si firmano protocolli ad hoc, che permettono ai ministri di entrare in carcere secondo ulteriori regole, come se fossero dei volontari” ha spiegato il presidente Patrizio Gonnella. A queste si affiancano poi le organizzazioni confessionali che hanno stipulato un’intesa con lo Stato (dalla Tavola Valdese, all’Unione delle Comunità Ebraiche, all’Unione Cristiana Evangelica Battista, fino al”Unione Buddista Italiana, per citarne alcune) grazie alla quale i ministri di culto possono entrare regolarmente nei penitenziari, “ma non sono retribuiti dallo Stato”.

Il Capo del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo, ha sottolineato che qualche passo nella giusta direzione è stato fatto: in base ad un protocollo con l’Ucoii, 52 istituti risultano ospitare luoghi di culto islamici ufficiali definibili come moschee, mentre in altri 132 istituti ci sono stanze utilizzate come luogo d’incontro con ministri islamici. Per la altre religioni invece non esistono luoghi di culto. Per Consolo bisogna adesso “creare le condizioni strutturali affinché i diritti vengano garantiti attraverso l’ingresso di ministri di culto e mediatori culturali” nelle carceri. Nella stessa direzione va la proposta di Antigone e cioè “che si arrivi a una norma sulla libertà religiosa, che dia a tutti pari dignità, affinché si possa professare liberamente la propria fede, si possa mangiare nel rispetto delle regole religiose, senza nessuna discriminazione”.

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