“Meglio fascista che frocio”
(Alessandra Mussolini, Porta a Porta, 9 marzo 2006)

Che scoperta. Svegliata di soprassalto, una parte (disgraziatamente piccola) del Paese va a guardarsi allo specchio, madida di sudore, e pensa a Sarri: sarà mai che i finocchi in Italia hanno qualche problemino?

Forse Sarri era preso dalla rabbia, forse parla così perché è toscano, forse intendeva dire “frocio” e “finocchio” perché mentre lui sta sempre in tuta come se scendesse a gettare l’umido nella differenziata, Mancini il fighetto sembra sempre che vada a una cresima. Forse Sarri non è nemmeno “razzista” come ha detto Mancini usando una parola a sproposito. E forse Mancini ha usato un pretesto come un altro per fare la vittima. Il punto è che di tutto questo chi se ne frega: Sarri ha detto una cazzata, non doveva dirla, perché gli allenatori di serie A hanno responsabilità al pari di qualsiasi figura pubblica. E le figure pubbliche – tutte – danno l’esempio.

Il problema semmai sta nell’uso che si fa delle due parole, frocio e finocchio. Nella sostanza, non nella forma. Sarri le ha usate come un insulto. Come uno strumento per offendere. Scagliandole, sputandole in faccia. Come se fosse una macchia indelebile, un marchio infamante. Frocio. Finocchio. Quindi male, orrore, schifo.

La soluzione non starà nelle due giornate di squalifica a Sarri, il comunista. Lo sforzo sta nell’uscire da quella panchina: cosa pensano dei finocchi sugli spalti degli stadi (spesso rigonfi di svastiche), nei mercati, nei bar, nei tinelli e nelle sale da pranzo delle famiglie italiane? Quanti pensano agli omosessuali ridacchiando? Oppure li pensano come una specie di pervertiti? O magari li ritengono degli sfortunati, dei malati, da compatire, commiserare? O in ogni caso li tengono bene a distanza, come appestati dai quali diffidare, che “facciano pure cosa vogliono purché stiano a casa loro”? Quanti?

Il calcio, che si sveglia come al solito dopo ere geologiche scoprendo di essere nel mondo e non su Andromeda, è una buona fetta di società italiana. Il suo presidente, il suo rappresentante all’estero, la faccia che riassume tutto un movimento – il pallone – che alla base (i giovani, i dilettanti) è anche sano e meritorio ha detto cose irripetibili a più riprese, prima e durante la sua presidenza, in momenti diversi e perfino davanti a un microfono. Sui neri, sulle donne, sui gay e sugli ebrei. Un altro dirigente semi-inutile ma potente della Federcalcio ne ha dette altre sulle lesbiche. Un campionario che avrebbe stracciato Borghezio in una finalissima.

Eppure nessuno ha mosso un muscolo. Nessuno si è rotto l’osso del collo per cercare un microfono – sconvolto, com’era Mancini – a denunciare lo schifo, il marcio, le discriminazioni, “tutti quelli che soffrono”. Nessuno ha preso per un orecchio Carlo Tavecchio e l’ha messo alla porta, per sempre. Nessuno si è augurato che fosse radiato. E ora invece tutti a bocca aperta. Primi tra tutti i conduttori dei programmi tv sportivi rimasti interdetti – con lo sguardo vivo come quello delle bamboline di porcellana. Di solito balbettano quando c’è da dire doping o calcioscommesse, figuriamoci parlare di gay: piuttosto ingoiano delle rondelle da 15, o della stricnina.

Il calcio è una fetta di società, così come lo è il Parlamento. E tutti si affollano sul “frocio” detto da Sarri mentre questo è il Paese che forse nel 2016 (ma non è nemmeno detto) arriverà ultimo – ultimo – nell’approvazione di una legge sulle coppie di fatto omosessuali, unioni civili, matrimoni gay, le chiamassero come diavolo gli pare. Il Paese in cui “ci sono problemi più urgenti” delle unioni civili. E’ lo stesso Paese che non riesce a fare una legge sull’omofobia. Che vede buttarsi dalla finestra adolescenti additati a scuola. Che vede pestare gli omosessuali che scelgono la strada sbagliata e incontrano la gente sbagliata.

La Storia e la politica raccontano che mentre il Paese cresceva in termini di Pil, buste paga, cilindrate e benessere, sul resto rimaneva ingessato. Benito Mussolini, oltre a mandare centinaia di omosessuali al confino, usava l’accusa di pederastia per eliminare politicamente chiunque fosse d’intralcio, anche e soprattutto all’interno dello stesso regime fascista. Era una macchia infamante. In questo modo, a prescindere se ci fosse del vero oppure no, fece fuori due segretari di partito, Augusto Turati e Giovanni Giuriati. Il primo fu mandato in manicomio e poi al confino perché in una lettera a una maitresse chiedeva di incontrare un “maschietto” (intendeva una donna con i capelli corti, à la garçonne, alla maschietta, ma poco importava). Una pratica, quella del dossieraggio con accuse di omosessualità, dalla quale Mussolini salvò, per un pelo un terzo segretario del partito, Achille Starace. Ma che invece alimentò per mettere in difficoltà Casa Savoia e il principe Umberto II, successore al trono che il Duce non sopportava. Nel Codice Rocco, l’antenato fascista dell’attuale codice penale italiano, inizialmente doveva esserci un articolo, il 528, che puniva con la reclusione da uno a tre anni i colpevoli di relazioni omosessuali. Ma il regime decise di cassarlo: il reato avrebbe significato ammettere l’esistenza degli omosessuali in Italia.

Cose di 80 anni fa. Non come il caso di Dino Boffo, il direttore dell’Avvenire che criticava il bunga bunga e quindi fu linciato dal Giornale con una velina finta della questura in cui si sarebbe detto che “il Boffo è un noto omosessuale già attenzionato”. Non come Nicola Cosentino che per far fuori il suo rivale interno a Forza Italia in Campania, Stefano Caldoro, fa produrre un falso dossier sulle finte frequentazioni di quest’ultimo con dei transessuali. Non come le parole di Giancarlo Gentilini, prosindaco leghista di Treviso, che qualche anno fa rilevava la necessità di una “pulizia etnica contro i culattoni”. Non come due consiglieri comunali della Lega a Milano che qualche mese fa definiro il Gay Pride “deprimente palcoscenico di qualche migliaio di frustrati, vittime di aberrazioni della natura”. Non come Umberto Bossi che nel 2008 precedeva di poco l’amico Silvio Berlusconi: “Meglio noi che andiamo con le donne. La sinistra va coi culattoni”. Ma sempre un gradino sotto di Alessandra Mussolini. “Meglio fascista che frocio”. E giù risate.

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