Se sia colpevole o innocente di corruzione e finanziamento illecito, come sostiene la Procura di Roma, lo stabiliranno a questo punto solo i giudici. Ma il tribunale della storia il suo verdetto lo ha già emesso: Alemanno Gianni, classe 1958, due volte ministro e una volta sindaco della Capitale, è uno dei maggiori responsabili dell’impossibilità di avere in Italia una destra normale. Anzi di avere una destra.

Sit-in della Guardia Forestale contro la soppressione del corpo

La sua parabola, cominciata negli anni 80 nell’ala rautiana del Fronte della Gioventù, sta lì a dimostrarlo. Movimentista, post-fascista, anti-americano e avversario delle leggi speciali antiterrorismo, Alemanno per un decennio entra ed esce di galera, venendo accusato ora di aver partecipato a un pestaggio, ora di aver lanciato una molotov contro l’ambasciata sovietica, ora di aver partecipato a manifestazioni di protesta non autorizzate per la prima visita in Italia del presidente Usa George Bush senior. Viene sempre prosciolto. Nelle schiere del Msi si guadagna una maschia fama di oppositore del Regime. Diventa segretario del Fronte ed è uno dei leader di quella destra sociale anti-capitalista che dice di propugnare l’equa ripartizione dei frutti del lavoro grazie alla cogestione delle imprese e l’azionariato operaio.

Ma si sa come vanno queste cose. Nella vita si nasce incendiari e si muore pompieri. O meglio, nel caso di Alemanno, si nasce rivoluzionari e si muore clientelari. Così, a dimostrazione che, proprio come sosteneva Leo Longanesi, le rivoluzioni le fanno solitamente le idee che non trovano posti a sedere, il futuro sindaco di Roma appena acchiappa la poltrona capisce che il suo scopo nella vita è mantenerla. E che in fondo quello è pure l’obiettivo di tanti camerati.

Si spiegano in questo modo le raffiche di assunzioni di amici e parenti all’Atac, l’azienda dei trasporti di Roma, dove il Nostro imbarca a chiamata diretta 850 persone tutte legate da rapporti familiari o politici a esponenti del centrodestra o dei sindacati. E quelle all’Ama, l’azienda dei rifiuti, dove una sessantina di dipendenti sono stati licenziati lo scorso settembre proprio perché assunti in qualità di parenti di.

Si discuterà molto negli anni a venire sul perché Alemanno e molti altri reduci del Movimento sociale appena giunti al Potere si siano trasformati in un’orda di fameliche cavallette. E perché abbiano rinunciato fin da subito a tentare di trasformarsi in una normale destra europea. O persino in una destra come quella lepenista. Probabilmente ci sarà chi sosterrà che il problema è stato il contagio rappresentato da Silvio Berlusconi, il politico che nel 1994 li ha sdoganati e che certamente in fatto di moralità pubblica non ha mai rappresentato un esempio. Altri ricorderanno invece come per i missini fosse semplice avere le mani pulite. Il loro partito prima non governava, non amministrava, non decideva. Insomma non aveva occasioni per rubare.

Chi scrive questo articolo coltiva però una terza ipotesi. Non in antitesi con le precedenti, ma complementare. Alemanno e i suoi sodali una volta andati al potere non sapevano più che farsene: non avevano più nessuna ideologia di riferimento e non avevano il tempo per elaborarne un’altra. Piazzati al fianco di Berlusconi e Umberto Bossi, non potevano nemmeno seriamente gridare “legge e ordine” o fare del nazionalismo una bandiera. Senza ideali, senza idee (giuste o sbagliate che fossero) si sono accomodati a tavola. Seduti a destra solo perché tutti gli altri posti erano già occupati.

Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2015

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