Partiamo con una nota positiva: l’aspettativa di vita continua ad aumentare in tutto il mondo e negli Stati Uniti, da questo inverno, si inizieranno sperimentazioni su un farmaco che sembra essere in grado di rallentare notevolmente il processo d’invecchiamento cellulare.

In Italia si è passati da un’aspettativa di vita di 77 anni nel 1990 ad una attuale pari a 83 anni (80 per gli uomini e 85 per le donne). Il World Health Statistics 2015, il rapporto annuale sullo stato della salute nel mondo, appena pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità conferma che l’Italia è seconda solo al Giappone in quanto a longevità. La ricerca medica poi, sembra prometterci una vita in salute, oltre che lunga. A quanto pare la Metformina, un farmaco comunemente usato per trattare il diabete, potrebbe aumentare notevolmente la speranza di vita ed essere efficace nel prevenire o rallentare malattie tipiche della terza età come tumori e Alzheimer.

Purtroppo però, una analisi più dettagliata dei dati racconta una storia decisamente più complicata. Salute e longevità non sono per tutti: le disuguaglianze socio-economiche infatti già determinano chi potrà avvantaggiarsene a pieno.

In Inghilterra, è la Marmot Review che da anni monitora progressi e problematiche legati allo stato di salute della popolazione. Il report del 2015, appena pubblicato, mette in evidenza l’aggravarsi di alcuni problemi ormai endemici legati alla salute pubblica. Il contesto socio-economico in cui vivono le persone, combinato con un livello crescente di disparità nella qualità dell’assistenza sanitaria si traduce in una forbice preoccupante nell’aspettativa di vita e lo stato di salute in Inghilterra. La Marmot Review è chiara: benessere psico-fisico, salute e longevità sono direttamente correlati alla nostra professione, al nostro reddito, alla città e al quartiere dove viviamo. Il contesto socio-economico influisce tanto quanto i fattori biologici e comportamentali sulla nostra speranza di vita.

Lives on the Line
Lives on the Line

Le disparità geografiche sono sorprendenti e Londra è emblematica da questo punto di vista: longevità e indice di povertà infantile sono inversamente proporzionali. Chi nasce e vive nel quartiere “sbagliato” può aspettarsi una vita decisamente più breve e ha una maggiore propensione a malattie croniche. Basta spostarsi di qualche fermata sulla Central Line per passare da un’aspettativa di vita di 96 anni per residenti di Oxford Circus ai 77 anni per i residenti di Bow. Pimlico e Vauxhall sono separate solo da un ponte, ma ad attraversare il fiume verso sud, si perdono 6 anni di aspettativa di vita.

La Marmot Review si raccomanda a governo e autorità locali perché l’impatto delle ineguaglianze socio-economiche ed ambientali venga mitigato e ne fa principalmente una questione di giustizia sociale e di civiltà. Lo studio però nota anche che la dimensione economica delle disuguaglianze di salute è ormai centrale nel dibattito pubblico. Infatti le disparità di salute costano ai contribuenti britannici £20-32 miliardi all’anno per welfare e mancati introiti in tasse, £31-33 miliardi all’anno in termini di diminuzione della produttivita e £5,5 miliardi all’anno in assistenza sanitaria. Senza un intervento efficace, il sistema sanitario nazionale potrebbe arrivare a spendere oltre 2 miliardi in più all’anno solo per cure urgenti legate all’obesità, che in Uk è uno dei problemi più chiaramente correlati al contesto socio-economico in cui vive chi ne soffre.

Governo e sistema sanitario nazionale riconoscono l’emergenza e in parte hanno già adottato misure in merito: educazione e assistenza all’infanzia, interventi di salute pubblica, benessere sul posto di lavoro e assistenza agli anziani incentrata su autonomia e partecipazione, sono principi che tutti, politici, personale sanitario e cittadini approvano. In Uk, è chiara anche la necessita di creare un sistema sanitario e di assistenza sociale veramente integrato e che tenga in considerazione le esigenze di gruppi demografici e socio economici diversi. La strategia quinquennale di Nhs England, infatti, prevede lo sviluppo di servizi di assistenza e supporto a 360 gradi, e incentrati su prevenzione e riabilitazione, educazione e mitigazione dei fattori sociali e ambientali nocivi.

Noi italiani in generale siamo più sani e longevi dei britannici. Eppure il rapporto Istat sullo stato di salute degli Italiani pubblicato in autunno evidenzia disparità regionali preoccupanti.

In Italia, la geografia della salute evidenzia un divario importante tra il Nord e il Mezzogiorno e le Isole, ma secondo l’Istat da noi le disparità sono di natura più complessa. In Italia il servizio sanitario è gestito a livello regionale e fornito a livello di distretti sanitari e questo potrebbe spiegare in parte sia le disparità tra regioni che quelle all’interno della stessa area regionale. Un indice di tale disomogeneità è offerto dal numero di Asl nelle diverse regioni e dalle differenze, sedimentate negli anni, negli approcci all’assistenza sanitaria, che sono frutto di scelte politiche tanto quanto di necessità amministrative e specificità territoriali.

Ci sono delle apparenti incongruenze visto che in Italia a condizioni socio-economiche migliori non sempre corrispondono maggiore longevità e migliore stato di salute. E viceversa, naturalmente. Per esemio, i giovani sardi hanno in media un’alimentazione più equilbrata e uno stile di vita più attivo dei coetanei di altre regioni, quindi non sorprende che la quota di bambini in eccesso di peso, di età compresa fra 6 e 17 anni sia stabilmente inferiore al dato nazionale (21,6% rispetto a 26,6%). Eppure le buone abitudini dell’infanzia non si traducono in dati altrettanto positivi per la popolazione adulta: i sardi sono longevi ma il 13,7% degli adulti tra i 35 e i 64 anni è affetto da una malattia cronica grave (ben al di sopra del 11,5% a livello nazionale). Come in Uk, fattori genetici e biologici si combinano con determinanti legati a contesto ambientali e posizione sociale, ma in modo meno diretto.

L’Istat rileva anche che la percezione soggettiva delle condizioni di salute è fortemente correlata al livello di istruzione, peggiorando sensibilmente nelle persone con titolo di studio meno elevato. Per esempio, nel caso dell’obesità (che comunque in Italia è un problema molto più contenuto rispetto a quello rilevato altrove), sembra che il livello di istruzione e fattori ambientali siano più determinanti del reddito, come succede in Uk. In generale, sembra che in Italia il legame tra stili di vita e livello d’istruzione sia particolarmente marcato e si manifesti nella propensione a fumo, alcol, sedentarietà e alimentazione sregolata ma anche in una minore propensione a ricorrere a controlli regolari e visite specialistiche, utili per la diagnosi precoce di alcune patologie.

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L’Italia è al vertice della graduatoria delle disuguaglianze sociali in Europa – siamo secondi solo alla Gran Bretagna – tuttavia la forbice delle disparità di salute non è, per fortuna, profonda come quella britannica. Basti ricordare che tra la regione dove si vive più a lungo (Trentino-Alto Adige, 80,7 anni gli uomini e 85,5 le donne) e quella in cui la vita media è più breve (Sicilia 78,8 anni gli uomini e 83,2 le donne) ci sono solo due anni di differenza, non 19 come tra i due estremi a Londra.

A proteggerci da disuguaglianze di salute più marcate sono state fin ora la buona qualita dell’assistenza sanitaria in Italia e consulti specialistici più facili da accedere e quindi la diagnosi precoce. La dieta e la qualità della vita mediterranee contribuiscono in modo significativo a mitigare l’impatto negativo delle disuguaglianze socio-economiche sulla salute: attività fisica all’aria aperta, alimentazione equilibrata e strutture di supporto sociali e famigliari relativamente solide.

Il pericolo, quindi, è che anche noi italiani adottiamo in massa abitudini dannose che, combinate con disuguaglianze già serie e poca enfasi su politiche di salute pubblica, potrebbero aumentare le disuguaglianze di salute in modo repentino e profondo. E infatti alcuni esperti parlano di un “ritardo” nella diffusione di tre importanti fattori nocivi: il fumo tra le donne del sud, abitudini alimentari scorrette nei gruppi meno abbienti, e numero di donne con basso reddito e figli dipendenti. Parlare di ritardo però sembra rendere questi fenomeni quasi inevitabili. Invece, come spiega da anni Giuseppe Costa, esperto di disuguaglianze di salute in Italia, bloccare l’evoluzione di queste curve epidemiche è possibile ed è una chiara responsabilità delle politiche di prevenzione italiane.

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