Si avvicina la scadenza elettorale e la conclusione del mandato della giunta Merola, dopo un lungo periodo di crisi e transizione determinato da eventi politici, tutti di segno negativo, succedutisi negli anni precedenti: la sconfitta storica del ’99, la prima giunta di destra “civica” nella storia della città, la rimonta cofferatiana, stagione sofferta e contraddittoria, piena di promesse e conclusasi con un addio polemico a Bologna; venne poi la stagione del “sindaco breve”, il Delbono delle “marachelle” colto con le mani nel sacco di una gestione “disinvolta” delle sue competenze economiche di vicepresidente della giunta regionale. Erano i prodromi del successivo scandalo che coinvolse e travolse la giunta regionale di Errani e l’intero consiglio per la gestione dei fondi dei gruppi consiliari. Alla fine arrivò la giunta Merola, nata con aspirazioni di rinnovamento di idee e generazionale.

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Invece Bologna, in questi ultimi quattro anni come nei tre lustri precedenti, non ha prodotto alcuna significativa innovazione, in nessun ambito, in primo luogo l’economia: se si eccettuano i grandi gruppi industriali più noti, s’è verificata un’emorragia di attività produttive, addirittura più ampia e profonda che in altre regioni, la città ha perso la caratteristica di polo d’eccellenza della piccola impresa artigiana.

L’unico progetto ambizioso è Fico, centro agro-commerciale che dovrebbe attrarre, nelle intenzioni di Oscar Farinetti, addirittura dieci milioni di visitatori all’anno. Nel frattempo la fiera, un tempo all’avanguardia, perde colpi a causa della scarsa competitività del “sistema Bologna” rispetto ad altre fiere, in primo luogo quella di Milano.

Eppure una città al centro del Paese, crocevia di viaggiatori da tutt’Europa, una città con una popolazione universitaria di 80.000/100.000 studenti di cui oltre il 60% fuori sede, questa città attrattiva per prestazioni sanitarie d’avanguardia, non riesce a dotarsi di un piano urbanistico, infrastrutturale e culturale adeguato a così grandi potenzialità.

La contraddizione evidente di questa velleitaria impotenza, è data dalla visione municipalistica e antiquata che connota la classe dirigente, soprattutto, ma non solo, politica. I bolognesi continuano a pensare alla loro città come protetta e chiusa da mura, hanno lasciato il Policlinico universitario dentro il centro storico, senza lo spazio sufficiente a renderlo funzionale, assediato dal traffico mentre non potenzia la linea ferroviaria a servizio

Il vecchio tribunale è stato spostato di cento metri, in un edificio del tutto inadatto nel cuore del centro storico, dove gli autoblindo parcheggiati in via Farini ogni mattina bloccano la circolazione, dando la visione di una città assediata dai detenuti: tutto questo in virtù di un accordo con un influente costruttore, al quale viene pagato un affitto enorme, e contro il parere dei magistrati, che ritenevano l’edificio inadatto anche per l’angustia degli spazi.

La nuova sede del Comune è stata realizzata prescindendo da ogni criterio di efficienza energetica (con una cattiva circolazione d’aria): anche in questo caso chi ci guadagna è il costruttore (una cooperativa, ovviamente), l’intera zona ex mercato ortofrutticolo concepita per una mastodontica espansione edilizia, giace incompiuta per la crisi del comparto.

I nostri amministratori si producono nell’incoerente disegno di ricercare lo sviluppo economico, senza fare ciò che è necessario allo scopo: affrontare seriamente i nodi della mobilità collettiva, programmare la delocalizzazione delle funzioni, collocare le nuove nelle aree dismesse, senza distruggere ulteriori porzioni di suolo agricolo.

L’ultimo sport a Bologna è eliminare prima delle elezioni tutte gli edifici occupati temporaneamente e abitati da senza tetto o da giovani che s’inventano attività sociali, artistiche e culturali. È successo con il collettivo Atlantide che da circa quindici anni svolgeva la sua attività a favore dei movimenti gay, lesbiche ecc. (ma non solo) negli spazi del cassero di Porta Santo Stefano, una rete di associazioni, vivaci, colte e pacifiche che costituiva un punto di aggregazione creativa.

Nel pieno della ricerca di una soluzione alternativa, sono stati sgomberati con un blitz della polizia. L’episodio che si è meritato articoli sulla stampa internazionale, è costato la poltrona di assessore alla cultura ad Alberto Ronchi contrario alla linea del sindaco.

Dopo pochi giorni altri sgomberi di senza tetto, in case abbandonate, poi il grande assedio militare dell’edificio ex Telecom, che era occupato da circa un anno, per dare un’abitazione provvisoria a famiglie numerose di immigrati e italiani indigenti.

Quel che appare evidente è l’incapacità di governare un processo certo complesso ma non privo di sbocchi progressivi. Se si fosse un po’ meno sensibili solo agli interessi forti ovvero di immobiliaristi e proprietari di suoli, si potrebbero realizzare in una realtà come questa progetti veramente innovativi, ma qui la logica “degli affari” è totalizzante anche se molte volte crea ingenti perdite!

Amministratori fate un viaggio ad Amsterdam, andate ai quartieri Nord: l’Ndsm werf, una ex fabbrica ristrutturata per volontà e iniziativa di un gruppo di artisti, e che, con l’accordo delle istituzioni, ora comprende atelier, gallerie d’arte e un enorme skatepark. Andate a Mission street, Andate al quartiere creativo di Riga, andate a vedere ovunque non si fa una lotta scema contro i giovani e ci poveri ma si cerca di stabilire con loro una collaborazione e si valorizzano le qualità creative, magari fornendo un sostegno concreto, spazi, strumenti e soprattutto lasciandoli liberi di esprimersi senza pensare di condizionarne l’esistenza, ovviamente fatta salva la doverosa azione di controllo.

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