Quello del Brasile è solo l’ultimo caso. Giovedì la Corte dei Conti federale ha bocciato il bilancio 2014 presentato dal governo di Dilma Roussef perché “manipolato” con l’obiettivo di coprire il pesante deficit del Paese. Ma negli ultimi dieci anni sono stati numerosi e clamorosi i casi di esecutivi che hanno ammesso di aver truccato i dati per garantirsi la rielezione o semplicemente migliorare la propria immagine internazionale. “Abbiamo ovviamente mentito nell’ultimo anno e mezzo, due anni, mentre eravamo al governo. Mentivamo di mattina, di pomeriggio, di sera”, ha confessato nel 2006 il primo ministro ungherese Ferenc Gyurcsány, in un vertice del partito a porte chiuse la cui registrazione è stata resa pubblica in circostanze non chiarite. Budapest ha nascosto ai cittadini la reale situazione economica del Paese, una condotta che permesso al governo dell’epoca di vincere le elezioni politiche dello stesso anno.

“Nessun’altra nazione europea ha agito sfacciatamente come noi”, diceva Gyurcsány. Ma forse si sbagliava. Perché 1.500 chilometri più a sud, precisamente ad Atene, solo qualche anno prima di Gyurcsány i colleghi dell’esecutivo greco cercavano la giusta quadra contabile per spingere la Grecia all’interno della zona Euro. “Quando lavoravo per la Bce, ogni volta avevo a che fare con Paesi che non rispettavano i criteri”, ha affermato l’ex capo economista di Francoforte Otmar Issing in un’intervista del 2011, “la Grecia aveva imbrogliato per entrare”. L’audit condotto dal governo ellenico entrante nel 2004 fece infatti emergere che la ragione per cui negli anni immediatamente precedenti il rapporto deficit/Pil si era ridotto attorno all’1% era rappresentata da una metodologia diversa da quella internazionalmente riconosciuta. Il problema della qualità dei dati forniti dai governi è antico. E oscilla lungo una direttrice ai cui estremi ci sono la menzogna e l’errore. Trovare il confine tra queste due dimensioni è impossibile, le sfumature possono essere tante. Al di fuori si pone chi, per non mentire e non sbagliare, i dati preferisce proprio non comunicarli, forse avendo anche smesso di misurarli.

È il caso del presidente venezuelano Nicolas Maduro che lo scorso dicembre prese questa decisione dopo aver scoperto di avere in casa l’inflazione più alta del mondo, su base annuale al 68 per cento. La decisione di non misurare non pare tuttavia aver impresso svolte significative alla situazione, se i prezzi al dettaglio in Venezuela continuano a crescere ed esperti proiettano i propri calcoli in una valore compreso tra il 180 e il 300 per cento. Un drammatico impoverimento dei salari, in un Paese che chiuderà l’anno con un Pil negativo tra il 6 e il 12 per cento.

Nel 2012, non lontano da Caracas, un titolo dell’Economist scuoteva invece Buenos Aires: “Don’t lie to me, Argentina”, diceva la rivista. Dunque più menzogna che errore, puntando il dito su un problema comune nell’area: la crescita dell’inflazione. Tra il 5 e l’11% era la stima comunicata dal governo nei passati cinque anni, troppo poco, e così l’Economist, per la prima volta, decise di far riferimento ad altre fonti, che stimavano valori più che doppi. “I prezzi errati hanno sottratto milioni di dollari ai detentori di bond legati all’inflazione”, asseriva l’articolo senza mezzi termini. E tuttora ci sono perplessità sui dati comunicati dal governo argentino, che per questo subisce continui richiami, l’ultimo lo scorso giugno, dal Fondo Monetario Internazionale.

Forti dubbi, da sempre, anche dall’altra parte del Pacifico, in Cina. Le crescite del Pil che in alcuni anni sfioravano la doppia cifra potrebbero essere un tarocco. Una circostanza, quella dei dati cinesi, mai del tutto chiarita: oggi analisti più prudenti suggeriscono un incremento del Prodotto interno lordo per l’ultimo trimestre intorno al 5%, almeno un paio di punti in meno di quanto dichiarato dal governo. In un sondaggio del Wall Street Journal tra 64 economisti americani, diffuso nelle scorse settimane, si rilevava che il 96% degli intervistati non credeva a una crescita di Pechino del 7 per cento.

Più errore che menzogna, invece, in Africa. Nel 2013 un articolo del Financial Times metteva in guardia i governi del continente dal rischio di un disimpegno degli investitori internazionali proprio a causa della cattiva qualità dei dati economici. “Ci possono seriamente condurre a diagnosi errate”, affermava il Fmi, nel mentre in cui il Gambia e la Guinea-Bissau ricalcolavano le dimensioni della propria economia, scoprendole più che doppie rispetto a quanto stimato, o il Ghana e la Nigeria conoscevano un incremento del Pil rispettivamente del 62 e del 40%, avendo inserito nella sua misurazione interi settori economici che fino a quel momento non erano considerati. Ma anche qui si sa come prendere vantaggio dai numeri.

In un report dello scorso anno, prodotto dal think tank americano Center for Global Development dall’eloquente titolo: “The political economy of bad data: evidence from african survey & administrative statistics”, si evinceva che diversi Paesi sub-sahariani hanno teso a fornire sistematicamente numeri nel campo della sanità e dell’educazioni eccessivi rispetto a quelli più probabilmente reali. E che questo fosse dovuto a due fattori: nel primo caso, un maggior numero delle vaccinazioni avrebbe permesso di rispondere positivamente alle attese dei donatori internazionali, che evidentemente in caso di fallimento dei programmi avrebbero potuto chiudere i rubinetti; nel secondo caso gli stessi apparati governativi sarebbero stati ingannati dai numeri forniti dagli operatori territoriali, improvvisamente trasformati a seguito del cambiamento nelle modalità di erogazione dei fondi.

La catena di raccolta delle informazioni è sempre molto lunga, è un singolo indicatore, nella sua immediatezza, non rende giustizia a un processo molto complesso. In cui ognuna delle parti in causa, a partire dalla metodologia identificata, passando per la rilevazione e finendo con l’elaborazione, può produrre una distorsione nel risultato finale. Un modo per provare a capire se una nazione fornisce dati errati (manipolati o meno) c’è, e si chiama legge di Benford. Formulata dal fisico Frank Benford, e utilizzata dallo Us Internal Revenue Service per intercettare dichiarazioni dei redditi sospette e frodi fiscali, afferma che se si collezionano numeri in maniera casuale e si calcolano le frequenze delle loro prime cifre significative, i numeri con 1 come prima cifra significativa dovrebbero apparire circa il 30% delle volte, mentre i numeri con 9 come prima cifra significativa appaiono solo il 4,5% delle volte.

Diversi ricercatori hanno provato ad applicare tale legge ai conti presentati dalle nazioni e la legge ha evidenziato alcune situazioni incongruenti tali da far sospettare della loro attendibilità. Tra gli altri, all’interno della German Economic Review, in un articolo intitolato “Fact and fiction in Eu-Governmental economic data”, Bernhard Rauch, Max Göttsche, Gernot Brähler e Stefan Engel dimostravano nel 2011 come i dati forniti dalla Grecia registravano le maggiori deviazioni dalla legge di Benford. E venivano lanciati forti sospetti sui numeri di Romania, Lettonia e Belgio, in quest’ultimo caso tali da provocare a Bruxelles un’interrogazione parlamentare, alla quale la Commissione europea rispose ostentando tranquillità.

Niente di sorprendente, anche perché, trasversale alla menzogna e all’errore, oltre alla secretazione (o alla scomparsa) dei dati c’è un’ulteriore isotopia: il maquillage. I dati economici, in fin dei conti, sono i risultati di una convenzione di calcolo. E se questa cambia, i numeri sono diversi, ma perfettamente legittimi. Si pensi a una delle ultime misure lanciate dalla Ue per promuovere la crescita, purtroppo solo sulla carta: includere le transazioni illegali nel calcolo del Pil. Per l’Italia sembrerebbe aver migliorato improvvisamente il rapporto debito/Pil di 5 punti percentuale.

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