Guardate questa foto. E’ una bambina appena nata. La madre è una vedova di guerra siriana e l’ha partorita in un sottopassaggio della stazione Keleti di Budapest, dove migliaia di rifugiati sono bloccati dalla polizia ungherese, che impedisce loro di salire sui treni per la Germania.

L’ha partorita per terra, su cartoni e coperte sporche, circondata da altri disperati che bivaccano da giorni, in un luogo cosparso di rifiuti. La bimba è avvolta da un coperta di alluminio fornita da un volontario di “Migration Aid” che ha aiutato la donne e che ha commentato: “E’ nata qui perché l’ambulanza si è rifiutata di portare la madre in ospedale. E’ stato un momento meraviglioso, ma il mio cuore è infranto perché è accaduto in un luogo così orribile”.

La madre ha chiamato la neonata Shems, che in siriano significa “luce del sole e della speranza”.

E’ inevitabile affiancare questa immagine di vita con quella del bambino siriano morto affogato a Bodrum.

Vita e morte. Eppure sono le due facce della stessa storia. Ma ci commuoviamo solo di fronte a quella del bambino morto. E si riempiono i giornali di fiumi di ipocrisia e di retorica, con i soliti soloni che si sprecano a dire se era giusto mostrarla o no.

Perché mai non si doveva pubblicare? Perché è terribile? Perché offende le nostre coscienze? Perché bisogna dare ai cadaveri la dignità che meritano, soprattutto se sono bambini?

Allora, con lo stesso principio non bisognerebbe neppure pubblicare la foto della bambina nata orfana nel mezzo ai rifiuti. A me fa la stessa impressione di un bambino morto. Anzi, forse di più.

Twitter: @caterinasoffici

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