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Chi ha paura del Sud che cambia? Come scriveva Gaetano Salvemini, “l’ascaro meridionale non chiede che di vivere e di lasciar vivere”. Ecco perché, stabilità la minorità civile del meridionale, non sono ammessi mugugni e piagnistei. Chiunque contravvenga, che sia un famoso scrittore o un giornalista di indiscusso livello, sarà esposto al bullismo mediatico di personaggi (gli ascari, appunto e i loro augusti protettori) che in un paese dignitoso allignerebbero al più in qualche enoteca malfamata. Questo accadeva a Salvemini, come a Gramsci, persino in Parlamento. E oggi? Oggi, persino importanti ambienti istituzionali risultano contaminati da forme affini di bullismo perché, come sostiene il prof. Gianfranco Viesti, “il leghismo è riuscito a ravvivare antiche contrapposizioni territoriali interne al paese, sentimenti anti-meridionali mai sopiti” [1].

Andiamo avanti nella interessante lettura di Salvemini: “Ma guai a chi lo minaccia (l’ascaro, ndr) negli interessi immediati suoi e della sua clientela. Guai a chi gli rifiuta i piccoli, continui, ignobili servigi giornalieri, di cui egli e i suoi elettori hanno la necessità. Qualunque gruppo di uomini onesti, di qualunque partito, voglia mettere un po’ di freno alle iniquità di una sola fra le clientele che fan capo a un deputato meridionale, è sicuro di trovarsi contro tutta la marmaglia compatta”, questa la lettura che faceva il grande meridionalista molfettese sul monolitico blocco sociale della “piccola borghesia affamata” che esprimeva e dominava – nel 1912 – la rappresentanza del Sud a Roma. La quale ne ha costituito il principale freno allo sviluppo, incarnando lo zoccolo duro del tanto vituperato clientelismo meridionale. Che, pure, tanto comodo ha sempre fatto a certi equilibri. Salvemini aveva osservato che ogniqualvolta lo Stato centrale interveniva al Sud lo faceva per proteggere e tutelare gli interessi della “piccola borghesia delinquente e putrefatta contro il malcontento dei contadini”. Il sistema clientelare, con le dovute modifiche e integrazioni, si è consolidato, allargato e accresciuto, fino ai giorni nostri.

E ciò spiega la sorpresa con cui viene presa da certi politici e accademici la presa di coscienza nelle giovani generazioni e negli intellettuali – quelli liberi – del Sud. Ecco perché tanto irrita e sorprende la critica alla riproposizione di modelli di sviluppo legati alle fonti fossili, alle trivelle nei mari più belli e ai gasdotti sulle spiagge incontaminate. Per decenni la gente del Sud è stata rimproverata di avere poco “capitale sociale” e quindi ora suona tanto strano che si ribelli di fronte alle aggressioni della “crescita insostenibile” sul proprio territorio. Ma come ti permetti, suddito, di lamentarti? Non puoi capire, taci! Argomenti degni del più retrivo degli assolutismi. Ma senza sangue blu. Solo le auto, blu.

Se oggi sempre più giovani e persino scrittori e giornalisti si occupano di questione meridionale, ben venga, no? Se un giornalista come Marco Esposito, dalle colonne del Mattino del 7 agosto 2015, descrive le sette piaghe che affliggono il Sud ben venga, no? Sono argomenti che permetterebbero di parlare di questione meridionale anche a chi riesce a farlo solo in termini propagandistico-retorici. In breve, ecco, direttamente dall’articolo di Esposito, alcune piaghe del Sud nel 2015, a cento anni da Salvemini: fisco più pesante in Campania rispetto persino alla Lombardia, per via delle addizionali locali Irpef; maggiori tagli alle università al Sud, meno fondi per le cure al Sud rispetto alla media nazionale, federalismo fiscale scriteriato (privo di una indispensabile componente perequativa), tratte ferroviarie ridotte a un settimo da Roma in giù, minori investimenti delle aziende pubbliche al Sud, (la metà rispetto all’Obiettivo 45%, ossia l’impegno per le aziende pubbliche – per legge – di investire il 45% al Sud, troppo spesso disatteso); persino minore qualità del servizio di erogazione dell’energia elettrica al Sud. Ben venga, ancora, che s’invochi da Roma una migliore e più efficace spesa dei fondi europei al Sud, unica risorsa – o quasi – ormai disponibile per contrastare l’annoso divario Nord-Sud. Sarebbe ora che le regioni meridionali imparassero a farne buon uso. Nondimeno, fermo restando che la Puglia si è dimostrata regione virtuosa nella spesa di quei fondi, non mi spiego davvero come mai lo scorso anno il medesimo Governo abbia deciso di ridurre il cofinanziamento, proprio al Sud. Continua Esposito, “il Sud è diventato una grande area con fiscalità di svantaggio, dove a maggiore pressione fiscale corrisponde una precaria erogazione di servizi: nel 2015 una nuova impresa, una startup, è esente dall’Irap in Lombardia mentre paga il 4,82% in molte regioni del Sud (con un picco del 4,97% in Campania”. Proprio dove occorrerebbe aiutarle di più. Come mai non si coglie, nella classe politica meridionale, una seria indignazione a fronte di queste scelte, ma solo atteggiamenti incostanti e ondivaghi, oscillanti tra ossequio del Palazzo romano e pseudo-ribellismo a vocazione esclusivamente mediatica?

[1] Gianfranco Viesti in “Il Sud vive sulle spalle dell’Italia che produce – Falso!”

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