Più giustizia uguale più carceri. Sembra che questa sia l’unica equivalenza possibile. Sono molti e di sicura formazione democratica coloro che evocano le manette di fronte al problema della delinquenza, della corruzione, delle mafie. Come se l’unico ideale di giustizia possibile si esaurisse in quattro sbarre e una cella in cui rinchiudere le persone e privarle di tutto.

Perché? Perché sulle carceri si fatica a ragionare? Cosa ci fa pensare che il carcere sia l’unico modo per acquietare le nostre paure, la nostra insicurezza? A ogni nuovo evento che ci minaccia (lo sbarco degli immigrati, il mostro, l’atto terroristico e anche l’indagine sul malaffare), l’invito è rinchiudere il colpevole e buttare via le chiavi. Tutti in galera, e per sempre (salvo poi ricredersi se in galera ci va qualcuno che è nostro amico o noi stessi).

Non se ne esce. Non riusciamo a pensare in modo diverso da come si pensava cent’anni, duecento, trecento anni fa (spesso le carceri sono ancora quelle). Eppure abbiamo una Costituzione molto liberale (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”), viviamo in una democrazia moderna, abbiamo a cuore i diritti civili e ci battiamo per essi. Ma il carcere no. Gli unici che da anni si battono per cambiarlo o abolirlo sono i radicali. Gli altri partiti ogni tanto votano un’amnistia e invocano sempre nuove carceri. Sembra che non bastino mai.

Almeno il merito del ministro Orlando, convocando gli Stati generali sull’’Esecuzione penale’, è stato quello di aver proposto il problema della detenzione all’attenzione della politica (la polemica sull’invito a Adriano Sofri è solo un di cui). Nessun democratico che ha a cuore i valori della libertà e della dignità della persona può ignorare che in Italia c’è un’istituzione che rende schiavi i detenuti, e che è basata sulla tortura fisica e psicologica (ricordate Cucchi?). E ciò avviene comunque, indipendentemente dalla lungimiranza e liberalità con cui vengono gestite le carceri. La prigione non soddisfa lo scopo principale che molti pensano debba avere: salvaguardare la nostra sicurezza (oltre a rieducare i detenuti). Infatti il 70 per cento, uscito di prigione, ricomincia a delinquere. E dietro le sbarre la violenza non ha fine: ogni anno ci sono 160 morti (almeno un terzo suicidi). Un sistema dunque sbagliato, ingiusto, e anche antieconomico (all’anno costa quasi 3 miliardi di euro, 125 euro al giorno a detenuto).

E allora? Il carcere va abolito e l’intero sistema penale ripensato. Così come alcuni riformatori avevano cominciato a fare negli anni settanta-ottanta (la legge Gozzini sulle pene alternative è del 1986). Non è un’utopia, è un’esigenza basata su elementi reali. Così come non era un’utopia la riforma Basaglia del 1978 che prima era sembrata a molti benpensanti impossibile e assurda (liberare i pazzi che minacciano la società!). I problemi legati alla salute mentale non sono stati tutti risolti ma almeno i diritti fondamentali della persona sono stati salvati.

Lo stesso discorso vale per le carceri che sono luoghi dove c’è di fatto una sospensione delle principali regole della convivenza e della democrazia, dove vale la legge del più forte, ancora una volta. Le ingiustizie, i favoritismi, le violenze presenti nella società dentro le mura del carcere si moltiplicano e diventano parte essenziale di un sistema in cui chi non è protetto muore, non ce la fa. Esattamente il contrario di quanto dovrebbe accadere. E allora? Intanto non costruiamo più nuove carceri e lasciamo in strutture protette ma civili solo chi davvero è pericoloso (il 10% dell’attuale popolazione carceraria), e gli altri paghino con azioni o in denaro per le colpe commesse, come avviene in Belgio, Austria, Svizzera, Germania, Gran Bretagna (“giustizia riparativa”). Nessuno può pensare di mettere in libertà camorristi mafiosi, rapinatori, stupratori e nemmeno corruttori e ladri. Questi possono essere controllati meglio in strutture più piccole ed economiche. Si può fare. In Francia e Gran Bretagna solo il 24% dei condannati sconta la pena in carcere (in Italia l’82,6%). In Svezia, Norvegia il lavoro è parte essenziale della pena. Prendiamo esempio da loro. Altiero Spinelli, uno dei padri dell’unione europea, incarcerato durante il fascismo, scrisse una volta a Calamandrei:”Più penso al problema del carcere e più penso che non c’è che una riforma da effettuare: l’abolizione del carcere penale”. ( Cfr. Abolire il carcere di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta. Postfazione di Gustavo Zagrebelsky).

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