Comparso un paio d’anni fa soprattutto nelle città d’arte, proposto a basso prezzo da venditori ambulanti, è divenuto ormai almeno nel nostro Paese un fenomeno diffuso, intercettato ora anche dalla produzione industriale e dalla distribuzione commerciale più allargate. Stiamo parlando del bastone su cui montare lo smartphone per fare autoscatti fotografici o autoriprese video, allo scopo di consegnare se stessi e i momenti esaltanti (reali o presunti) della propria vita alla storia o, più banalmente, ai social network condividendoli con una cerchia ristretta oppure planetaria di followers.

Non interessa qui aprire una riflessione su caratteri culturali, sociali, psicologici, estetici di tale pratica, su cui molti si sono già espressi e su cui ognuno può vantare opinioni legittime.

Meno affrontata la questione dei caratteri di questa tipologia di oggetto. Si tratta di un prodotto low cost, tendenzialmente usa e getta, di qualità formale e funzionale modesta, divenuto però un autentico best seller.

La cosa aiuta a riflettere sulla condizione – per dirla in modo articolato e colto ma utile –  degli artefatti estetici dentro l’’economia del simbolico‘. Cioè su come i prodotti nel mercato capitalistico esistano al di là della corrispondenza a una funzione oppure della stretta relazione costo-valore, bensì trovino modalità privilegiata di valorizzazione attraverso la costruzione e stimolazione di un immaginario simbolico, evocativo, emozionale. Insomma non si compra (solo) quello che ci serve (abbiamo quasi tutto e di certo abbastanza, almeno in Occidente) ma ciò che ci racconta storie, solleticando fantasia, sogni e desideri.

Il successo del business del selfie stick intercetta infatti alcune ‘necessità’ anche simboliche e ne esemplifica le conseguenze: risponde all’esigenza di fotografarsi (e poi ‘mettersi in vetrina’) ottenuta con un gadget di costo e qualità ridotti, destinato a divenire in fretta l’ennesimo scarto dentro un sistema globale senza troppo controllo per quanto riguarda crescita infinita e sostenibilità.

Si tratta di un prodotto che nasce e si afferma fuori dalle logiche delle ‘scientifiche ricerche di mercato basate sulle presunte domande dei consumatori, ma anche dalle raffinatezze della cultura del brand o del design. Una sorta di progetto ‘dal basso’ caratteristico dei tempi della rete e del digitale, della proliferazione, diffusione e democraticizzazione degli strumenti di progetto-produzione-distribuzione-comunicazione-consumo. Analogo, solo per fare alcuni esempi, ad altri fenomeni solo apparentemente lontani e differenti, come street fashion, autoproduzione e Diy, tribù di consumo autoriferite e autogestite fino ai Gas, gruppi di acquisto solidale.

L’oggetto dell’anno allora può dire forse qualcosa a chi si occupa di progetto, produzione e consumi. Ad esempio, che il processo di costruzione delle merci contemporanee presenta una complessità non esauribile nelle modalità dell’approccio tecnico-scientifico di finanza e marketing bensì vive di spunti, stimoli e sollecitazioni che arrivano dalle persone e richiedono la messa a punto di strumenti di intelligenza più sofisticati, insondabili, che guardino non solo le economie ma anche le necessità (fino alle più opinabili come quelle dei selfie), nonché le aspirazioni più alte della società.

Achille Castiglioni, uno dei più importanti designer italiani, consigliava spesso ai suoi giovani studenti: “andate a spasso per le strade e per i prati, a vedere un po’ come è fatto il mondo; le idee sono già tutte lì, pronte per essere colte”; e proseguiva “se non siete curiosi, lasciate perdere”.

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