Ma la sede di via Nazionale a Roma, quella che fino al 2006 era il regno di Pio Pompa e dei suoi dossier riservatissimi, era «una sede del Sismi o di altro soggetto pubblico o privato»? Da chi era finanziata, «dallo Stato o da altro ente pubblico italiano o straniero»? E con quali risorse? Ufficiali o no? Per dirla più chiaramente: le somme usate da Pompa per pagare gli informatori come Renato Farina, il famoso agente Betulla, giornalista, ex vicedirettore di “Libero”, sono state «prelevate dal bilancio dello Stato» o del Sismi, diretto allora dal generale Nicolò Pollari? Oppure, ancora, addirittura fornite da «soggetti estranei alla Pubblica amministrazione»?

IN NOME DELLA LEGGE Sono tante le domande elencate nella lettera (vedi sotto) datata Perugia 4.5.2015 e indirizzata «Al Sig. Presidente del Consiglio dei Ministri» Matteo Renzi. Oggetto: il «procedimento penale n. 5970/2009 n.r. – opposizione del segreto di Stato». Firma: quella di Andrea Claudiani, il giudice per l’udienza preliminare (gup) di Perugia che il 28 aprile si è visto comparire in aula «l’imputato Nicolò Pollari». Proprio il generale Pollari, oggi consigliere di Stato, noto ex direttore del Sismi, già inquisito e prosciolto per la “extraordinary rendition” di Abu Omar, è oggi a giudizio a Perugia, insieme a Pio Pompa, per i cosiddetti «fatti di via Nazionale». E alla prima udienza del processo, il 29 aprile scorso, Pollari si è comportato esattamente come al processo Abu Omar (per cui è stato prosciolto dalla Cassazione: l’azione penale “non poteva essere proseguita”) e al precedente processo per i dossieraggi: si è trincerato dietro al segreto di Stato, esibendo ai magistrati una lettera firmata da Giampiero Massolo, direttore generale del Dipartimento informazioni per la sicurezza (Dis) di Palazzo Chigi. E cosa scrive Massolo? Non solo conferma che «è vigente il segreto di Stato», ma comunica pure di avere informato della vicenda addirittura «il presidente del Consiglio dei ministri». Da qui la missiva di Claudiani a Renzi per chiedergli ufficialmente, «ai sensi di legge», se «sia confermata o meno l’esistenza del predetto segreto di Stato»  sulla vicenda dei dossier di via Nazionale.

TUTTO IN ORDINE «Apporre qui il segreto di Stato è incomprensibile, dato che si tratta di attività manifestamente estranee alle attribuzioni dei servizi. In questo caso non si tratta di una vicenda internazionale delicatissima come quella di Abu Omar, che coinvolge servizi esteri come la Cia. Qui si usa il segreto di Stato per nascondere un’illecità attività di dossieraggio ai danni di magistrati e giornalisti. Il che non è solo scandaloso, ma pericoloso, destabilizzante e potenzialmente eversivo per la democrazia», dichiara fermo l’avvocato Francesco Paola, legale di cinque delle vittime spiate (“da disarticolare”), come si legge negli atti dei dossier sequestrati. «Non capisco perché su un fatto così grave non ci sia stata la mobilitazione delle associazioni per la libertà di stampa, o dell’Ordine e dei sindacati dei giornalisti. Registro solo silenzio».

SCANDALO NAZIONALE Lo scandalo degli spioni di Stato, come li ha definiti Gianni Barbacetto in un articolo  de “Il fatto Quotidiano”, era scoppiato nel 2006, quando i magistrati milanesi Armando Spataro e Nicola Piacente, che stavano indagando sul sequestro dell’ex imam Abu Omar, rapito a Milano nel 2003 da uomini della Cia, scoprivano un ufficio del servizio segreto in via Nazionale 230, a Roma. Via Nazionale era il regno di Pio Pompa, uno strano personaggio: classe 1951, nato all’Aquila, collaborava con Pollari al Sismi ma era anche un devoto consulente del berlusconiano fondatore del San Raffaele, don Luigi Verzé. Collaboratore del Sismi dal 2001 come consulente a contratto, era Pompa a produrre e custodire in via Nazionale i dossier su obiettivi sensibili come magistrati, giornalisti, politici, intellettuali, insomma tutti i possibili “nemici” dell’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi: parliamo di ben 200 magistrati di Milano, Palermo, Roma, Torino (da Ilda Boccassini a Edmondo Bruti Liberati, da Antonio Ingroia a Gherardo Colombo). Sotto controllo e ben dossierati erano anche alcuni siti “sospetti” come societacivile.it, manipulite.it, centomovimenti.it, associazioni come “Democrazia e Legalità” di Elio Veltri, e decine di giornalisti italiani e stranieri, tra cui Eric Jozsef di Liberation, l’ex corrispondente da Mosca de “La Stampa” Giulietto Chiesa (che proprio il 29 aprile si è costituito parte lesa), e anche i fondatori del mensile “Voce della Campania”, Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola: tutti sospettati di far parte, come titolava uno dei dossier custodito da Pompa, di un “Network telematico di delegittimazione del Premier (Berlusconi, ndr) e della sua compagine governativa”.

POLLARI ALLA CARICA Un primo processo era però finito in nulla. Non solo perché in Italia non esiste il reato di dossieraggio, ma perchè Pollari e Pompa, accusati di peculato per aver usato soldi e risorse pubbliche per fini non istituzionali, sono riusciti a bloccare il procedimento invocando proprio il segreto di Stato: il gup di Perugia Carla Giangamboni ha dichiarato il «non luogo a procedere» nel 2013. Contro la sentenza hanno però fatto ricorso sia la Procura che le parti civili – di tante vittime, solo tre magistrati (Libero Mancuso, allora procuratore a Bologna e oggi avvocato; Alberto Perduca, sostituto a Torino; Mario Vaudano, una lunga carriera, anche al ministero della Giustizia), l’ex parlamentare Veltri e tre giornalisti,  Pennarola,  Cinquegrani e Chiesa da ultimo, si sono costituiti al processo – e a sorpresa, nel novembre del 2014, la Cassazione ha dato loro ragione. Annullato il «non luogo a procedere», il processo poteva ripartire. Solo che, alla prima udienza, anche Pollari è ripartito alla carica: in base al suo «dovere di osservanza della legge e di tutti gli ordini e delle direttive conseguentemente ricevuti e recentemente confermatimi», l’attuale consigliere di Stato, lettera di Massolo alla mano, ha preventivamente opposto il segreto di Stato a tutte le domande che il magistrato avrebbe voluto o potuto fargli durante il dibattimento.

ASPETTANDO MATTEO Soprattutto ai quesiti più sensibili riguardanti il ruolo di Pio Pompa e del giornalista Renato Farina, l’agente Betulla. Per esempio: «Se le somme asseritamente erogate da Pompa Pio a Farina Renato fossero di origine pubblica o privata o connesse ad operazioni di intelligence autorizzate dal Governo»; quale fosse il nome del soggetto erogatore e titolare delle somme «asseritamente» versate al Farina, chi le abbia materialmente consegnate, chi ne sia «il destinatario finale»; quale fosse la «finalità sottesa a tali erogazioni». Insomma, partendo dal dossieraggio su magistrati, politici e giornalisti (chi li ha ordinati, utilizzati e pagati? con quali soldi?) Claudiani vorrebbe capire ben altro: se le famose «erogazioni» in denaro avessero qualcosa a che fare con «accertamenti e indagini relativi alla cattura e/o all’omidicidio di ostaggi italiani in Iraq». O se, putacaso, riguardassero il periodo «in cui sono state condotte operazioni politico/militari in Iraq e in riferimento alla presenza italiana e/o di italiani in quel Paese, al tempo della “seconda guerra del golfo”». Un pezzo di storia recente che è ancora segreto. «Ma non ci si può nascondere dietro la guerra in Iraq per negare ai cittadini spiati la verità su un’operazione sporca come quella di via Nazionale», accusa l’avvocato Paola. Che, a nome dei suoi assistiti, ha scritto a palazzo Chigi per chiedere un incontro con Renzi. Nessuna risposta. Vedremo ora che cosa invece il premier risponderà al magistrato di Perugia.

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