La corte criminale del Cairo ha condannato a 20 anni di carcere il deposto presidente egiziano Mohammed Morsi. L’accusa è di essere responsabile della morte di alcuni manifestanti negli scontri di fronte al palazzo presidenziale nel dicembre del 2012 contro la nuova costituzione stilata dal governo islamista.

Allora, circa 50 manifestanti appartenenti a diversi gruppi secolari e rivoluzionari, vennero tenuti in ostaggio nella zona del palazzo presidenziale per una notte intera e picchiati da dei presunti sostenitori dei Fratelli Musulmani. Il New York Times raccolse diverse testimonianze che parlavano di gruppi di civili che supportavano la polizia nell’arrestare e picchiare gli attivisti contro il governo islamista. Questi episodi di violenza sono visti come il punto di svolta della breve presidenza della Fratellanza e segnano la rottura definitiva tra il governo e gli attivisti di piazza Tahrir, alcuni dei quali avevano supportato Morsi al ballottaggio contro l’ex ministro del governo Mubarak, Mohammed Shafiq.

Secondo molti analisti il dissenso assoluto verso la presidenza dei Fratelli Musulmani, che ha poi portato alla grande manifestazione del 30 giugno 2013, parte proprio dagli scontri di Ittihadeya che oggi segnano la condanna in primo grado per l’ex capo di stato.

Dopo il suo arresto, che ha coinciso con la sua deposizione nel luglio del 2013, Morsi è stato incriminato con numerose accuse tra cui quella di spionaggio e di collaborazione con gruppi stranieri, tra cui l’organizzazione palestinese Hamas, durante la sua fuga dal carcere nei giorni della rivoluzione del 2011.

Il governo transitorio militare, e poi quello guidato da Sisi dopo le elezioni presidenziali dello scorso maggio, ha perpetrato una repressione contro il movimento islamista definita da molti analisti “la più dura della storia egiziana”. Ne è il più grande simbolo lo sgombero – dopo più di un mese dal suo insediamento – del sit-in contro la deposizione di Morsi nella piazza di Rabaa el Adaweya al Cairo, dove nell’agosto del 2013 almeno 660 persone persero la vita (alcune organizzazioni per i diritti umani come Human Rights Watch parlano di 1.150 morti).

Inoltre, il movimento è stato dichiarato organizzazione terroristica dalle autorità egiziane e migliaia di suoi sostenitori sono stati arrestati e condannati a pene durissime tra cui la guida suprema Mohammed Badie condannato a morte in secondo grado alcune settimane fa. A finire sotto il mirino delle forze di sicurezza sono stati anche i giornalisti dell’emittente Al Jazeera da sempre vicina alla Fratellanza. Il canale egiziano è stato chiuso mentre 3 reporter dell’emittente inglese, tra cui il cittadino australiano Peter Greste, sono stati incarcerati per più di 400 giorni e restano sotto processo per concorso in associazione terroristica.

Il governo del Cairo ha più volte ritenuto il movimento islamista colpevole anche dei numerosi attacchi contro le forze di sicurezza che dal 2013 avvengono quasi quotidianamente nella penisola del Sinai e che hanno colpito sporadicamente anche la capitale egiziana. Ma se da un lato questa sentenza sembra chiudere una fase della violenta repressione del governo dall’altra mostra una sorta di moderazione della magistratura nei confronti di Morsi per cui era stata prospettata la possibilità di una condanna a morte.

Secondo molti esperti di politica egiziana, infatti, il verdetto di oggi è in linea con la posizione del presidente Sisi di fronte alla comunità internazionale. Una condanna più dura, o un’ eventuale pena di morte, avrebbe potuto creare delle critiche alla presidenza che in questo momento svolge un ruolo centrale nelle dinamiche regionali contro la lotta al terrorismo e l’avanzata dello Stato Islamico.

“L’esecuzione di Morsi avrebbe rappresentato un’escalation troppo dura che Sisi non è ora disposto a fare”, spiega al giornale Al-Bawaba H.A. Hellyer, esperto di sicurezza e Medio Oriente all’Università di Harvard. “La pena di morte inflitta a un presidente deposto dai militari anche, se sulla spinta della popolazione, sarebbe stata percepita molto male da parte dell’opinione pubblica internazionale.”

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