L’Italia da ormai troppo tempo ha più una collocazione internazionale che una politica estera. L’Alleanza atlantica e la Comunità europea hanno contribuito a darci una parvenza di collocazione internazionale, cui spesso non è corrisposta una politica estera, cioè un’attiva capacità di elaborazione e soprattutto di iniziativa nel contesto europeo e mondiale. Le visite all’estero dei nostri ministri sono in numero enormemente superiore rispetto al passato ma con quali risultati? C’è poi una profonda discrasia tra la nostra politica estera e quella dei diplomatici italiani nel Mondo.
Il ruolo del ministro degli Esteri non è più così ambito visto che ripaga poco in termini elettorali. Succede che i ministri degli Esteri abbiano di fatto abbandonato la politica estera nelle mani dei diplomatici, i quali alla fine, attraverso le piccole cose di tutti i giorni, non si limitano a eseguire direttive politiche, bensì costruiscono una loro politica. Il diplomatico italiano all’estero non è oberato né appesantito dalle pastoie delle istruzioni del suo governo. Può liberamente, o quasi, inventarsi una sua politica nei confronti del paese in cui è chiamato a operare. Le cattive figure restano e inducono il diplomatico ad uno strano gioco delle parti: egli cerca di farsi considerare rappresentante di un’Italia che appaia diversa e presuntivamente migliore di quella espressa dai politici.
Quello che sta succedendo ora in Libia con il rimpatrio proprio dei nostri diplomatici e con la preoccupazione delle minacce dell’Isis ci porta a delle riflessioni. Innanzitutto a differenza di quello francese, a forti toni antiamericani, il nostro terzomondismo ha fatto perno sulla presenza degli Stati Uniti per restituire all’Italia una posizione a fianco delle potenze vincitrici, almeno formalmente. Questo comfort geopolitico ha avvantaggiato l’Italia, soprattutto negli anni Settanta, nella sua politica araba. Ad esempio sostenendo Gheddafi siamo tornati in Libia in forme postcoloniali. Degli italiani si sono trasferiti in Libia. Non contadini bensì operai specializzati, dirigenti e imprenditori che oggi sono costretti alla fuga dalla Libia.
Di fronte allo scenario catastrofico che ci sta esplodendo in faccia, qualcuno in Italia ha avanzato l’ipotesi di un intervento militare in Libia. Il premier Renzi non l’ha messo in agenda, ma un tavolo negoziale dove riunire i vari gruppi per la costituzione di un governo stabile in Libia tracciando una road-map potrebbe ancora oggi essere promosso proprio dal nostro Paese. Quello di cui ha bisogno oggi la Libia è di una identità nazionale che rischia sempre più di vacillare sotto colpi delle forze disgregatrici. Il problema dell’Italia oggi nei confronti dell’ex Paese di Gheddafi non è tanto di difesa da eventuali missili, quanto di capacità di intervento nella crisi. E necessario conoscere meglio e utilizzare gli interessi e le alleanze dei diversi paesi arabi, soprattutto di fronte alla minaccia del terrorismo islamico.
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