Se mi lasci ti cancello. Da Facebook, da Twitter e da Instagram. E per ripicca – a tua insaputa – basterà il tempo di un click e l’universo mondo vedrà qualcosa che doveva rimanere nel segreto e nell’intimità di coppia. Questa operazione ha un solo nome: ricatto. La scorsa settimana un tribunale californiano ha giudicato colpevole per furto d’identità, estorsione e altri venticinque capi d’imputazione, Kevin Bollaert, 28enne sviluppatore web di San Diego che ora rischia fino a venti anni di carcere per aver gestito un sito internet – ugotposted.com – dove era possibile pubblicare materiale hard del marito o della fidanzata di turno che avevano deciso di troncare il rapporto. C’erano una volta le malelingue, le telefonate anonime, il chiacchiericcio di paese. A ogni latitudine la fine di una storia d’amore porta con sè rancori e risentimenti, in una sola parola: vendetta. Oggi, anche il regolamento di conti con l’ex dolce metà corre sul web. Si parla di revenge porn, cioè porno vendetta. È la pratica di postare in rete materiale privato come fotografie senza veli o filmati girati nei momenti d’intimità quando tutto nella coppia andava a gonfie vele.

È inutile dire che vengono pubblicati senza il consenso degli interessati e nella maggior parte dei casi accompagnati da riferimenti e informazioni che permettono di individuare con precisione la vittima esponendola al pubblico ludibrio. Il californiano Bollaert aveva creato un vero e proprio modello di business sul pudore violato delle vittime e infatti attraverso un sito parallelo – ChangeMyReputation.com  – chiedeva alle persone colpite, quasi sempre donne, 350 dollari per la rimozione di ogni singola foto o video postato. L’accusa ritiene che tra il 2012 e il 2013 abbia permesso la pubblicazione di quasi 10.000 immagini, e come se non fosse già abbastanza, erano corredate dal link diretto del profilo Facebook e da altre informazioni personali delle malcapitate. L’avvocato di Bollaert, Emily RoseWeber, ha sostenuto in tribunale che il suo cliente abbia svolto un’attività immorale approfittando della “debolezza umana”, ma che non ha infranto nessuna legge permettendo ad altri di inviare le immagini: “è grave, è offensivo, ma non è illegale”.

Giocare la carta del “mero intermediario” in questo caso non è servito, e la condanna esemplare è già destinata a fare giurisprudenza. Si tratta infatti della prima sentenza che punisce il gestore di un sito e non chi materialmente aveva scattato la foto o girato il video. Il revengeporn ha un seguito di “galantuomini” (nel 90% dei casi le vittime di ricatto sono donne) anche in Italia, ma il reato non rientra ancora in una fattispecie normativa specifica e viene ricompreso nell’art. 595 del codice penale che punisce “ogni offesa dell’altrui reputazione posta in essere con qualsiasi mezzo di pubblicità”. La Cassazione con una sentenza del 2013 ha sottolineato l’aggravante della diffamazione a mezzo internet e l’urgenza di norme per contrastarla perché “per l’intrinseca caratteristica di essere destinata a un pubblico vasto la sanzione attuale non è proporzionata al pregiudizio che il soggetto passivo riceve”. Nel Belpaese face scandalo il caso di revenge porn che nel 2010 colpì Belen Rodriguez al tempo fidanzata di Fabrizio Corona alle cui orecchie, essendo del mestiere, arrivò prima che uscisse, il tentativo dell’ex fidanzato argentino della showgirl, Tobias Blanco, di vendere per 300mila euro ai settimanali di gossip il filmato amatoriale che Belen ancora 17enne aveva girato insieme a lui. All’appuntamento per lo scambio, nel frattempo lievitato a 500mila euro, quella volta si presentò a insaputa del ricattatore proprio Corona.

Di Caterina Minnucci da Il Fatto Quotidiano del 5 febbraio 2015

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