Quando prendi un caffè, bevi 140 litri d’acqua. Quella tazzina ha avuto bisogno di una grande quantità d’acqua e, se ti piace l’arabica, è acqua etiope. Quella tazzuriella ‘e cafè vale cinque volte il consumo giornaliero di un etiope. L’acqua virtuale è un concetto che John A. Allan introdusse nel 1993 per misurare quanta acqua ci vuole per produrre una merce o un servizio. Ma è un’idea molto più antica: ogni manuale di progetto degli acquedotti del ‘900 si riferiva a questo parametro per pianificare le reti idrauliche in campo industriale. Assieme all’impronta idrica, introdotta da Arjen Hoekstra nel 2002, l’acqua virtuale è l’unità di misura per valutare l’uso e l’abuso della risorsa più importante sulla Terra. Una risorsa critica in molte zone del pianeta.

Per un chilo di carne ci vogliono 15 metri cubi d’acqua se di manzo, 6 se di maiale e solo 4 se di pollo, che sono comunque 4.000 litri. Un chilo di parmigiano reggiano DOP ha bisogno di diecimila litri d’acqua e un grammo di zafferano abruzzese DOP ne richiede circa 700. Una bottiglia di Barolo 365 litri d’acqua e una bottiglia di Moscato di Pantelleria, per il dessert, altri 410. Ogni giorno un italiano consuma circa 200 litri d’acqua dai rubinetti di casa; ma con il cibo se ne mangia altri 6.000, almeno trenta volte tanti.

Poiché il cibo si commercia, si esporta e si importa, l’acqua virtuale del cibo viene commerciata a livello planetario, trasportata da un paese all’altro, da un continente all’altro. Il water trade è un fenomeno imponente. Ci sono paesi che sono grandi esportatori netti, come Stati Uniti, Canada e gran parte del Sud America, Brasile in particolare; e paesi importatori, come la Cina. La Cina non è autosufficiente: ha troppo poca acqua dolce per abitante. La totalità del flusso netto dell’acqua virtuale che viene esportata è controllato dal sette per cento della popolazione mondiale: una concentrazione di potere superiore a quella di controllo delle fonti di combustibili fossili. Dal 1980 a oggi gli esportatori hanno esportato sempre di più, mentre gli importatori hanno visto sempre crescere la loro necessità di importare acqua virtuale.

L’impronta idrica dell’Italia è circa 2.300 metri cubi all’anno pro-capite, per il 60% circa prodotta fuori dai confini nazionali. È un volume di quasi 90 miliardi di metri cubi all’anno, assai maggiore del deflusso idrico del fiume Po, poco meno di 50 miliardi di metri cubi. Nonostante esporti molta acqua virtuale con i suoi prodotti agricoli di qualità, l’Italia è un importatore netto, anche per merito delle politiche agricole europee. Anzi, è il terzo importatore mondiale in termini pro-capite e il deficit tende ad aumentare. Dovunque diminuisce la distanza tra produttore e consumatore d’acqua virtuale, ma in Italia questa distanza aumenta, sia per le importazioni che per le esportazioni: produttore e consumatore sono sempre più lontani, con buona pace del chilometro zero.

Gli italiani disattendono ancora la Direttiva europea sull’Acqua del 2000. Forse in attesa della sua revisione, che ci sarà a breve. La politica di governo dell’acqua ha assicurato un ferreo e lucroso primato ai partiti politici, declinato spesso tramite controllate pubbliche a regime privatistico (municipalizzate, consorzi o istituti simili) di fatto in barba alla volontà della gente. E il malgoverno dell’acqua non ha finora rispettato i risultati del referendum popolare sull’acqua pubblica.

Riscoprire l’importanza del cibo e ricostruire il ruolo dell’agricoltura e dell’industria alimentare può aiutare a uscire dalla crisi. Governare l’acqua che mangiamo non è un aspetto secondario del governo dell’acqua. Meglio un governo democratico di un potere oligarchico, quale si sta affermando nel nuovo millennio a scala globale.

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